Era il suo disappunto verso le proprie tasche: non aveva più niente, non poteva lasciargli neanche un centesimo. Doveva partire alle 6,30 e il convoglio arrivò in orario pressoché perfetto: salì e prese posto in uno dei tanti scompartimenti liberi. Con lui soltanto un altro passeggero, strabico e vistosamente zoppicante per via di una gamba più corta, che si diresse verso il fondo del vagone. Il capostazione, decrepito e simile ad una statua di cera, alzò la sua paletta alle 6,35.

“In carrozza, si parte”.

Le vetture cominciarono ad avviarsi, rumorose e cigolanti come vecchi macinini.

In quel momento riuscì a salire l’ultimo viandante: una persona trafelata ed ansimante per la corsa fatta e per il peso dei suoi bagagli. “Ma non c’è uno straccio di facchino, qui?”

Era una donna, dai lunghi capelli e dall’aspetto molto fine ed elegante.

Josh, dopo averla notata dal finestrino, le diede una mano a posare le sue cose. “Permette? Mi chiamo Josh”. “Piacere, Rebecca. Posso sedermi qui? Questo treno sembra un obitorio e ho paura di restare sola”. “Ma è ovvio”, rispose Josh.