Era sudato, accaldato, impaurito, nei suoi occhi una cosa a metà tra lo smarrimento e la vergogna.
Ricordo che, al suo ritorno a casa, venni assalito da un senso di tenerezza, di colpa e di disperazione.
Piansi tutta la notte e, forse, ancora adesso.
Da allora noi, i figli , la moglie, a correggere gli errori; ci agitavamo di un’agitazione accelerata, come una disperazione che montava al ritmo di una marea implacabile; sdrammatizzavamo per un puro istinto di sopravvivenza, stendevamo progetti scaramantici verso un futuro che andava svanendo a piccoli dosi, senza fretta.
Inidonei, inefficaci, impreparati, come solo sanno essere i parenti più stretti di un congiunto malato.
Spesso rifletto sulla disperazione e sempre di più mi convinco che questa è il contrario della speranza.
Non faccio un mero esercizio di pensiero, ma tale paragone serve a dare un nome a questa sensazione di sottofondo, che accompagna i miei pensieri e la mia vita, che distorce le mie prospettive brevi, una rotazione alterata sul mio asse esistenziale.