In realtà lo facciamo quasi solo per noi stessi.

Dipendesse da lui, sarebbe già morto, magari di fame, seduto sulla sedia, con le sue matite colorate a disegnare il suo vuoto, incapace di avere fame.

Eppure.

Eppure lui mi guarda.

Lui mi guarda ancora, ha uno sguardo che fa pensare alla sorpresa, occhi sbarrati e grandi, proprio come i miei, fissi sulla mia figura come a meravigliarsi che io sia davanti a lui, la bocca è leggermente aperta come a stupirsi di qualcosa che sta accadendo, ha le guance rubiconde, a uno gli verrebbe da dire che non dimostra la sua età, ma le sue braccia sono ripiene di sabbia e piombo e non si piegano più ad accompagnare i movimenti, piuttosto si oppongono e, agli occhi di chi gli sta vicino, questa ottusità fisica dell’opporsi  è un’ingiuria ulteriore, un’altra ferita, sangue che scorre silenzioso dentro altro sangue della stessa ferita.

Quando mi guarda mio padre, io lo invoco forte e silenzioso dal fondo limpido di tutti i miei ricordi di bambino, gli chiedo di  tornare da me e non andar più via.