Lo so che lui non mi ascolta ma amo illudermi che qualche cellula del suo spirito forse se ne accorgerà.

Lo so che quell’espressione è solo un atteggiamento impazzito dei muscoli facciali, causato dalla malattia e che nei suoi occhi non c’è più luce, ma c’è qualcosa di irrisolto che si ostina a tenermi aggrappato a queste immagini alterate di lui.

Ho la faccia di quello che non riesce a crederci, a rassegnarsi che sia accaduta una cosa del genere, il guaio è che a forza di rimbalzare all’interno di questa non rassegnazione alla fine, soffro di una sofferenza inutile, poco pratica, quasi egoistica.

Sarebbe ora che io imparassi a trattare il corpo di mio padre con una manualità più asettica e cinica da camera mortuaria. Mi piacerebbe offrirgli gesti efficaci e lugubri, animati da energie di razionalità allo stato puro.

E’ strano come nella malattia di Alzheimer, gli spettatori coinvolti, comincino a pensare alla morte come una sorta di liberazione.