Parlammo poco, e non ricordo più quello che ci dicemmo, era strano ma le parole non servivano più, tutto quello che c’era da dire lo dissero i nostri corpi, i gesti, le mani, gli occhi, gli sguardi,  come a recuperare spazi lasciati in bianco, come a dare colore ad aspettative concimate solo a parole. Poi avvenne che ci togliemmo le scarpe e  mi colpì quel piedino bianco, curato e tenero, e quella gestualità rituale, come se stesse scoprendosi il seno, e quegli occhi verdi all’improvviso nei miei, a cercare conferme, vie per intrufolarsi dentro di me, agguantarmi e finalmente portarmi via, a fare l’amore.

Accadde tutto così in fretta, un precipitare rapido al fondo di noi stessi, antitetico a quell’indugiare lento dei nostri colloqui al computer. Ci ritrovammo nel suo studio, bevemmo vino bianco ghiacciato, mi girava la testa, non capivo se per il vino  o per quell’accelerazione violenta dei nostri desideri, ci abbracciammo con la forza di un maremoto  definitivo, scivolammo per terra sul tappeto, poi lei chiuse gli occhi come in attesa ed io la spogliai, prima le scarpe poi la gonna e la camicetta e il reggiseno, poi di nuovo in basso le mutandine,