Gli occhi scuri cerchiati dall’inchiostro del dolore, lo sguardo smarrito di una bambina che non sa cosa fare e perché si trovi lì. Mani nei capelli.

In macchina stiamo in silenzio. Che si può dire in situazioni del genere?

Baci, abbracci, pacche sulle spalle. “Ti siamo vicini, vedrai col tempo…ora riposa in pace”. Voci conosciute e non mi ronzano nelle orecchie. Mi guardo intorno: chi sono tutti questi?

Mi osservano mi sorridono mi circondano vogliono toccarmi baciarmi farmi le condoglianze ricordare episodi simpatici vissuti con papà. Via! Andate via, non voglio più nessuno intorno!

Ma sì, sì, certo, murate i mattoni, attaccate la pietra, coprite tutto: la cassa, le lacrime di mamma, il dolore che ci squarcia il petto. Coprite nascondete occultate.

Elaborare il dolore è come inghiottire una pallina. Si fatica a farla passare nell’esofago. Bisogna berci su, deglutire deglutire, aiutarsi con la saliva, con la volontà. Stringere gli occhi e impegnarsi per inghiottire. La pallina poi rimane nella pancia. Il dolore viene mescolato ai succhi gastrici, l’involucro esterno viene ridotto in poltiglia.