Nato a Copparo (Fe) nel 1954, Franco Mosca vive a Ferrara, dove ha compiuto gli studi. Per oltre dieci anni si è occupato dei vari aspetti dell’immigrazione straniera, realizzando indagini e ricerche sulla loro condizione lavorativa. Negli ultimi anni si ha seguito l'evolversi del mercato del lavoro e ha svolto colloqui di orientamento professionale con persone in cerca di occupazione.
Ha pubblicato le proprie poesie su diverse riviste ed antologie, oltre che due raccolte personali: “Il gioco delle rime” (2002) e “Luce zodiacale” (2005).
In questa nostra civiltà tutti osannano il vincitore. A lui tutto si perdona, per lui si aprono tutte le porte: “al campione vincente non si nega niente”. Tv, radio, giornali, riviste, genitori e professori, tutti ci invitano al successo.
Chi ha successo è amato e riverito. Chi ha successo ha imboccato la strada della verità e della giustizia. Il mondo ne è testimone.
E allora io dico: << abbasso i vincitori >>, se hanno sempre ragione, se ce li propongono sempre come modelli da imitare. << Abbasso i vincitori >>, che anneghino nel loro successo.
<< Evviva gli sconfitti >>, chi s'accorge d'aver sbagliato, chi cambia strada prima che gli arrida il successo, chi non vende sempre i suoi talenti.
Un vero poeta lo sa: chi vince sempre non ha più niente da dire, per questo ogni volta lo trovi dalla parte dei perdenti.
non ho che le parole
ora che lo scoppio ha dilaniato i cuori
resteranno per un po' le bandiere a mezz'asta
poi tutto tornerà come prima
fino al prossimo scoppio che dilanierà altri cuori
non ho che le parole
ora che la pioggia vorrebbe mondare la terra
c'è sempre un guanto per lanciare la sfida
e l'infame vendetta a tutelare l'offesa
all'insaziabile Dio della notte
non ho che le parole
ora che ci sgomenta l'antica maledizione
Abele è morto e i figli di Caino
prosperano sulla nuova Torre di Babele
abbattono la vita nel nome della redenzione.
oltre la siepe tra l'erba del fosso
con le ragazze cogliemmo le viole
fiorite dopo il gelo dell'inverno
saltellando allegri tornammo a casa
il sole brillava negli occhi chiari
tiepido ma acceso sull'orizzonte
trattenute a mazzetto tra le dita
il profumo di quelle viole ardite
cantava allora il canto della vita.
Leggedo "Le orme della parola" di Gian Luigi Beccaria (ed. Rizzoli-maggio 2013)
Viene dal tardo romanticismo italiano, dalla poesia ermetica francese, l'idea che il poeta per scrivere debba essere infelice.
Come se la felicità non fosse degna di essere raccontata, gli intellettuali si soffermano sulle negatività, fino a farne tragedie insormontabili.
Forse non sanno amarsi oppure si amano troppo; ma sentono di non bastarsi, d'essere infinitamente piccoli nella loro mania di grandezza.
Certo se si cerca la felicità che dura nel tempo, quella che supera l'attimo, lo sguardo meravigliato sul mondo, bisogna lavorare sull'intimità della propria coscienza, trovare il senso alle cose, accettare la mutevolezza dell'esistenza e trovare in questa ricchezza la risposta al nostro non bastarci mai.
Siamo le tessere di un mosaico, ricomporlo ci ridona il senso, delinea le ragioni della nostra esistenza,
Urlo e non mi senti, recita una canzone dei Modà. Ecco forse restare in silenzio ad ascoltarci, ritrovare il respiro del mondo ci fa capire il dolore e il senso ultimo della felicità dell'esistenza.
Quanta presunzione si cela nel credersi grande, cioè superiori al resto del genere umano (forse è solo l'atavico timore di guardarsi dentro, di fare i conti con le proprie meschinità).
Da qui sembra nascere l'impulso che serve ad interpretare il ruolo dell'uomo solo al comando, il disprezzo per l'avversario, la voglia di ergersi sulle sue rovine.
Quanta tristezza e malinconia mi nasce in cuore quando vedo i nostri personaggi politici!
Le loro presuntuose argomentazioni sono la spia del malessere umano, dell'eterno odio di Caino verso Abele.
a cosa serve?
(ascoltando il TG)
ditemi a cosa serve restare qui
stoicamente al vento a testimoniare
l'amaro vuoto di un dissenso acuto
quasi un vaniloquio inascoltato
vien voglia
di gettare tutto alle ortiche
di chiudere i cancelli e le porte
di prendere quei quattro ricordi
che ancora ingombrano il cuore
e di andarsene via...
(come se potesse esserci
un'altro posto dove andare!
come se si potesse far nascere
qualche rimpianto e nuove speranze
oltre l'orizzonte più cupo)
voglia d'esistere
m'intenerisce ancora
lo squittio del pettirosso sul ramo
e vorrei ascoltarlo
con chi passa
indifferente sulla via
tra queste amenità
scorre la nostra vita
tra improvvisi squilli di tromba
e ineffabili silenzi
al chiaro di luna
al chiaro di luna stanotte
trattengo tra le fragili dita
bianchi bicchieri vuoti
altri fuggono in balia del vento
dopo la festa
s'ode un bisbiglio tra le foglie
che scorre improvviso
nei canali e nei fossi
risale coraggiosa alla memoria
un'antica preghiera
a lenire il peso del dolore
tempo di vita
com'è difficile riprendersi il tempo
quello che ti hanno rubato
quello che hai sprecato
quello che hai venduto
ascoltare il "chiaro di luna"
cambiare le lampade bruciate
le serrature di casa arrugginite
e pregare che ti basti quello che resta
com'è difficile riprendersi il tempo
trovare le risposte oltre il muro
alto del silenzio ora che
lo puoi ascoltare mentre passa
siamo esseri sociali
checché ne dicano i nichilisti!
si parla o ci si guarda negli occhi
si tace o si sfuggono gli sguardi
ma come fare
senza una pietra di paragone?
Cosa dire se
nessuno c'è ad ascoltare?
nella loro nevrosi surreale
nel loro credersi ispirati dall'essere
rappresentano sempre la stessa
tragica commedia delle finzioni
e coprono tutto di sterco
per sentirsi puliti
disprezzano il commercio
ma tanti son diventati ricchi
stanno nell'ombra come zombi
il piglio dei sopravvissuti
negano tutto
ma se avessero un trono
li troveremmo saccenti
aristocraticamente seduti!
dicono gli esperti
dopo questa pandemia
niente sarà come prima!
io spero di continuare
liberamente a respirare
di ritrovare il calore
consueto di un abbraccio
manca la dolce promiscuità dei baci
quelli rubati alla luna o scambiati
di nascosto dentro ai portoni
la tenerezza e il fuoco sotteso delle carezze
niente sarà come prima!
che senso ha senza una direzione?
se non si distingue ciò che era buono
da ciò che era cattivo?
oppure semplicemente il giusto dall'ingiusto?
forse la barca in mezzo al mare
è in balia delle onde e delle correnti sottomarine
e nessuno traccia nuove rotte?
segue pagine successiva
qualcuno le ha già tracciate e non lo vuole dire?
vorrei una sonda sicura
un nuovo contatore geiger
uno scandaglio interiore
la lanterna antica
che Diogene ha smarrito!
come tronchi alla deriva
se un tronco va ancora alla deriva
in balìa delle onde nell'oceano infido
mi piace pensare che non sarà per sempre
né che sia parte della vanità del tutto
forse un uccello marino vi sosterà
stanco della lunga traversata
troverà un pasto frugale di insetti
sotto la spessa corteccia spugnosa
forse lascerà lì candide feci
prima di ripartire verso l'orizzonte
porterà via con sé il ricordo
di quel provvidenziale tronco
segue a lato:
e prima o poi quel tronco
approderà su una terra remota
magari vuota e desolata
e la feconderà con ciò che resta di sé
oppure quel tronco ormai putrefatto
affonderà un giorno negli abissi oscuri
e di lui non si saprà più nulla
un vecchio senza terra né radici
eppure anche laggiù troverà
pesci lanterna o lucciole di mare
e granchi mostruosi mangeranno
i resti marciti dell'antico legno
e di lui non rimarrà più nulla
forse anche il suo ricordo
si perderà nel tempo per sempre
ma nell'imprevedibile cerchio della vita
quel suo passaggio da una sorte all'altra
ormai è parte dell'eterno infinito
nel lago (a G. C.)
ci si confonderà per sempre
o qualche grumo di cellule
manterrà un po' di coesione?
è umano aggrapparsi
a qualche legge fisica
pur di non perdere quel po' d'identità?
s'impara sempre dopo
quando la favola è ormai finita
che Andersen è scivolato nel lago
mentre tentava di recuperare
i suoi sandali caduti in acqua
resta soltanto il silenzio
tante troppe domande
affiorano dal fondo
senza trovare conforto
l'altalena
in cima al monte
oscilla sul parapetto
sospinta dal vento
si sporge a volte e tutto
vede del fondovalle
ecco i campanili, le chiese
i campi sportivi, le piscine
il verde lucente dei boschi
è difficile scendere
affascinati dal panorama
qualcuno dovrebbe allettarti
con altre azzurre promesse
poi promettere di aiutarti a risalire
sospingerti dolcemente
di nuovo fra quelle meraviglie
se mi prendi per mano
arriveremo lontano
e i mostri della notte
resteranno indietro
confusi nella nebbia
alla stazione saliremo
sul treno in attesa
viaggeremo tra città
sospese per aria
e popoli misteriosi
già s'intravedono all'orizzonte
paesaggi alpini e verdi pianure
potremo entrare anche
senza passaporto
basterà un sorriso
o un abbraccio fraterno
da lì spediremo
ricordi-cartolina
dissetati dall'acqua
limpida delle fonti
forse un mattino
forse un mattino andando
in un'aria di vetro
romperemo i bicchieri di cristallo
nel fragore del silenzio attorno
saliremo sugli alberi
a interrogare il cielo
intaglieremo cortecce
confusi nel bosco
sulla soglia fa capolino
un'ombra di gioia ora
che dormo accanto a te
sul Po
se scavi tra la sabbia del delta
puoi trovare anonime reliquie
un accumulo di storie passate
puoi giocarci
inventare il loro passato
malinconie e passioni impossibili
le piene ogni anno
prima travolgono e trascinano via
poi rallentano e lasciano sparsi qua e là
nuovi cumuli di sabbia
un po' come cani randagi
forse abbiamo dimenticato
la solidarietà dei lupi
tanti si aggirano nella prateria
come cani famelici e solitari
giochiamo con l'indifferenza
passiamo oltre senza guardarci
un malanimo nuovo ci attraversa
sospettosi e guardinghi ad ogni sosta
nei vicoli fra le case resta l'odore antico
l'innato istinto di marcare il territorio
che il vento e la pioggia cancellerà