Ti somiglia quell’aria che il mattino
d’inverno a volte porta al mare: l’aria
gelida come di ghiacciaio alpino
che spacca l’aspra zolla della pelle.
E’ irsuto il mare e dardi soleggiati
getta la sabbia. Il cielo è triste e limpido
come un’immensa lavagna che aspetta
d’esser rigata con pensieri neri.
Crescono erbacce, qua e là, sparse a mucchi:
il muricciolo, e rametti nodosi,
qualche sasso, e le schiene che due vecchi
voltano al mare rientrando, freddolosi,
sono lo scabro ornamento di questa
passeggiata che mi offri, quasi muto.
Come un mazzo di rose io la prendo:
il tuo silenzio è una voce anche mia.
Fogli strappati sopra la tavola
e avanzi di roba da mangiare.
S’è fatta l’una di notte e ancora aspetto
l’ispirazione che tarda ad arrivare.
Come se fosse una bianca colomba
ch'entri dalla finestra all’improvviso,
sacro uccello che emerge dalla notte,
un uccello del Paradiso.
No, non è l’ispirazione una colomba
e la candela frattanto si consuma.
Il foglio attende d’essere vergato…
Potrei uscire, andare in mezzo ai campi,
attraversarli col buio e colla luna,
aspettare che un gufo o una civetta
mandino il canto, ed ispirarmi a loro…
Ma se esce una vipera dal sasso
io non posso chiamare nessuno,
il podere più vicino è a mille miglia
e il medico condotto non arriva.
Che poeta son io, così fifone!
Eppure guarda –ascolta- qui fuori c’è una pace
che invita proprio a mettersi in cammino:
non è il gorgoglio dell’acqua di ruscello
o il rumore di vento, è un’altra cosa…
Sono gli alberi laggiù, è l’orizzonte,
è l’ignoto che vive in questa quiete.
Il paesaggio è quasi immobile, solo variato
dalle nuvole che, passando,
coprono e scoprono a tratti la luna.
Il canto dei grilli
sale dal greto del fiume,
il canto degl'inferi grilli…
Com’è grande questa pace, com’è bella!
Su, un passo, forza, e dopo un altro…
Mia fantasia, perché non ci sei più?
Una volta fiorivi così bella!
Per effetto di un miracolo i pensieri
si riversavano sotto la penna…
Liberi e belli sono i pensieri
ma quant’è bella la vita qui in paese.
Oh, potendo, se sceglierei quella!
Ma in fondo, perché non potrei?
Forse mi basta solo qualche passo,
questa campagna non chiama ad addentrarsi,
chiede piuttosto di stare sulla soglia.
Il buio non vuol esser penetrato,
solo guardato, lambito di lontano.
Qui non mi giova camminare nella notte,
mi basta fermarmi a respirare.
Come quando, da ragazzo, avanti al mare
mi fermavo, un po’ prima della sera.
Con un giro del capo abbracciavo la costa.
Un attimo, su, un attimo esitante,
e in un profumo di quiete va’ a dormire…
Domattina comprerò le uova.
La catena alla bici l’ho già messa.
Devo andare a comprare il giornale.
Mi fermerò in paese, nel mercato
che schiamazza commenti alle notizie.
E magari telefono a Guido
per andarci a mangiare una porchetta.
Ti vuoi perdere la festa di San Rocco?
Quest’anno magari La traviata
è migliore dell’anno passato
e la tombola finisce a mezzanotte.
Guarda Città Sant’Angelo che bella!
L’hai mai amata prima così tanto?
Lascia i tuoi fogli, forza, e va’ a dormire!
L’ispirazione ritornerà!
Ti ho raccontato della via dei pensieri,
mia dolce cugina, di quella strada dove
da ormai due anni cammino, cammino,
con la notte e col giorno, spargendo come sale
i miei dubbi, i deliri e le speranze
e gli amori traditi e mai nati.
Ti ho parlato del terrazzo dal quale
con le notti sorridenti di un’estate
o fra i siderei rigori di un autunno
pronto a mutarsi in inverno più cupo
miravo le stelle, o guardavo le finestre
delle persone amiche, quando il lume si spegneva…
Quanti aneliti ho rivolto al cielo scuro
o alla cascina color sole di settembre
che dal pendio del prato mi balzava incontro…
E quante volte i miei giorni incompiuti
ho rispecchiato nella volta delle stelle
o nelle nere finestre della cascina
forse disabitata, oppure, chi lo sa…
Oramai per ogni giorno ch’è passato
si sono aggiunti un pensiero o un ricordo,
e prima ancora che da qui debba partire
ho metà vita affidata a questa via,
i miei pensieri hanno assunto la sua forma
tristissima e lieta, e il passo della marcia
con cui con rabbia o con letizia l’ho percorsa;
e di certo avrei avuto altri pensieri, e un altro Giorgio
avreste avuto voi su un’altra strada.
Canzone del portinaio
Quando di nascosto dagli operai e dai capi
riparato dagli strumenti e dal bordo d’un finestrone
sbucciavo un’arancia
era come se il sole mi sorgesse fra le mani
il sapore dell’arancia era la luce
il suo succo calore celeste
e l’estate tornava a squillare
nel chiarore gelido di gennaio;
e quando a sera dietro al vetro scuro
razzolavo piselli e patate
ero un contadino di ritorno dai campi
e portavo una camicia di lana a quadri
e una casacca marrone.
La notte poi tornava, ma era amica.
Farewell
La sera durerà ancora.
Allegrezza lungo le strade
e desolazione nel cuore.
Nemmeno l’arabesco di un buon vino.
Dove sei, amica cara?
Avvicinandoti troppo ti ho persa.
Ottobre sta per finire
ma l’autunno durerà ancora.
Dov’è finita mia madre?
È rimasta sul fondo della sera.
Mi fisseranno gli occhi della morte
ma la vita durerà ancora.
Non fissare i miei occhi, mia amica
i miei occhi già coperti di fiori
va’ per la tua strada piena d’ortiche
e lascia che l’amore duri ancora.
2012
Colombo non ha mai scoperto niente:
potrebbe essersi svegliato una mattina,
per quanto ne so, ed aver detto:
ho sognato l’America.
La vita qua
sotto le stelle del 2012
è come il moto senza senso
d’un turacciolo,
che, posato sul picco dell’onda,
non avanza né arretra
ma compie semplicemente un
moto circolare.
E scusatemi se scrivo colloquiale
ma non ho quarti di nobiltà
neanche in poesia.
La vita qua
con le baracche del 2012
è un legno fracico
è una vita che ha il cuore malato
ma stupenda una periferia:
ed è così stupenda quella periferia
così succosi i frutti
che l’autunno ci nevica addosso,
che noi vogliamo succhiarla tutta,
anche a costo d’arrivare a toccare,
prima o poi, il suo midollo d’orrore.
E Colombo non ha inventato niente,
l’America da noi s’allontana:
come quei sogni dove corri corri
e il traguardo si sposta con te.
Lungo le piste del 2012
i passanti mi guardano male
perché puzzo
perché giro mezzo nudo fra i vestiti
ma io
io ho il coltello dalla parte del manico:
gli altri domani possono essere me.
Angelo mio, col tuo sorriso, che tenere
canzoni agli occhi fa sognare,
con la tua voce che brocche riversa
colme di un balsamo caldo ed antico
mi domandi qual è il desiderio
mio più grande, e non sai la verità,
che su quest’animo un denso crepuscolo
da anni ha steso il suo manto. Son come
l’avventuriero delle Mille e una notte,
un Aladino cresciuto ai fumi di provincia, che al Genio
d’una lanterna di latta ha già espresso
tre desideri sbagliati. Adesso li ho finiti
e nelle ceneri del mio crepuscolo
mi aggiro, affascinato ed arido,
cercando di renderlo più bello.
Se la morte ci avesse violentati
non si sarebbe vestita da morte:
sarebbe stata come un’avventura,
una notte d’amplesso senz’amore.
Si sarebbe vestita da cicogna,
ci avrebbe fatto un sorriso, ed offerto
cibi pregiati imbevuti d’arsenico:
non ci sarebbe parsa una vendetta,
saremmo entrati nel sonno convinti
che il gorgo fosse un arido piacere.
Il prigioniero
Reti, sbarre, cancelli
e stelle sui tetti dei palazzi.
Sono uscito a guardare la notte
ed a te notte io parlo, inebriato
dai tuoi sospiri sognanti d’estate,
da questa tua letizia che ravviva
le mie sorgenti che tornano a sgorgare,
dalla tua voluttà di vacanze e mezze maniche, quasi un
[sogno
d’amore, d’eros, d’adolescenza che corre fra le case.
Guardo le nuvole azzurre
e il silenzio dell’ora di cena
mentre passeggio solo su e giù per il cortile chiuso:
da qualche parte le grida dei compagni
festosi come bimbi dell’asilo...
Non li sento da qui. Ascolto la notte
di vento e d’acqua sorgiva
e d’aria fresca della primavera,
questa notte che non vale una persona
ma è questa notte ed io la sto guardando.
Voci dal mare
Un giorno
Dissi che avevo in me così tant’acqua
Da non saper dove andarla a versare.
Il mare
Poco discosto da noi ci chiamava.
Per anni
Ha continuato a chiamarci, ogni volta
Che i miei viaggi incontravano la tua
Stabilità.
Io costruivo fuggendo; tu restando.
Mare calmo
L’abbiamo visto a tratti, e mare brusco
L’abbiamo visto più spesso; città
Ne ho cambiate
Ma sono sempre tornato a questa piazza.
La piazza
Echeggiava profumo di salsedine;
Venti sublimi, il soffio forte o lieve,
Portavano
Le voci argentee dei giochi infantili.
Il mare
C’ispirava racconti, riflessioni
E progetti di opere future.
Sono passate
Così le stagioni, geli e disgeli non li conto.
Tu lo sai
Che questa storia è un eterno ritorno,
Che siamo fatti così, e fra vent’anni
Ancora
Ci appoggeremo a questa balaustra
Davanti al mare
Per parlare di me che vado via,
Di te che resti, e delle mie città.
Ho con te
Il ricordo di più di mille vite.
Migranti
Le campane!,
e il viaggio è finito.
Grazie a Dio siamo salvi.
Chi è partito con noi
digrigna denti
gonfi d’alghe di mare.
Chi è partito con noi
sgretola sogni
sulle pietre del mare.
Dio di misericordia!
Finti uomini
Mastichiamo liquirizia quasi fosse tabacco,
inaliamo tutto il giorno del catrame il fetore.
Operai d’un mestiere che neanche conosciamo
pieghiamo gli angoli delle boccucce verso il basso
e ci atteggiamo al disgusto dei padri senza averne
l’ironia. Le coscienze imbottite di bambagia,
nel corpo il malcostume, appreso nelle famiglie,
coltiviamo l’illusione d’esser uomini liberi:
e se qualcuno ci scippa delle nostre sostanze
noi non lo denunciamo, ma aspettiamo che invecchi
per poterlo derubare anche noi. Poi moriamo.
La tua voce ha un suono di mare
un suono di viola profondo e sensuale
- canto sospeso fra la notte e il giorno
ruscello limpido che rispecchia dolorose stelle
Quando tu ridi dalla murmure grotta
stalattiti d’argento precipitano
sparge l’estate canzoni di Spagna
spruzza coriandoli fra gli spicchi del sole
A notte una ruga nella fronte
spreme dai tuoi occhi buoni un fado senza lamenti
e il dolore di nostra madre Terra
increspa il canto semplice della tua voce
L’aratro fende un grembo sofferente
escono guerre dal fondo del pozzo
dal tronco dell’albero ferito
cadono lacrime d’uomini torturati
Come uno scoglio il tuo corpo spezza l’onda
come fiati d’amanti si mischiano acqua e vento
la tua vita è tutta una vita
in fondo al tuo dolore pulsa gioia
Bach, Concerto per due violini BWW 1043, Largo ma non tanto
Un canto d’amore
s’espande fra aliti di chiesa,
ma d’una chiesa infinita
dove l’organo è grande come la Terra.
Dalle profondità delle caverne, dai mari
salgono soffi che fan vibrare canne immense.
Come in uno strano quieto maremoto
trema anche il giunco più esile,
la terra si riscuote tutta, freme, grida di passione,
rivolge i suoi fiati immensi al Cielo sovrano:
a quel cielo al quale due violini
sciolgono un inno di lode.
Le strade del mondo
Chiunque Tu sia, Adonai
E ovunque il Tuo letto di morte
Guardaci sporchi di sabbia
Il sole ci cuoce addosso la pioggia
Qualunque strada, o Lord
Qualunque polveriera
Ci conduce allo stesso posto
A tappe forzate, in catene
Ci conduce allo stesso posto
Ho messo calce sui muri d’Europa
Ho riparato i tubi
Degli acquedotti dei secoli
Ho marciato sotto Ataturk, Berija, Assurbanipal
Belli e duri come i sassi, o Deus
Non puliti e non sudici
I sorrisi ancora dolci
Ma tostati dal legno e dalla luna
Chiunque Tu sia, Adonai
Ovunque Tu ti sia perso
Le rotte degli esuli
Sono impregnate del Tuo nome
Lungo le strade che non portano a niente
E’ pieno del Tuo nome
Del Tuo nome che non esiste
Del Tuo nome che non risponde
Ballata del bimbo e del grano
“Madre, oh madre, ho tanta fame,
Dammi del pane, se no morirò.”
Mutter, ach Mutter, es hungert mich.
Gib mir Brot, sonst sterbe ich!
“Aspetta, aspetta, mio caro bambino,
Domani andremo a mietere il grano.”
Ma quando il grano venne mietuto
Il bambino era ancora affamato.
“Mother, oh mother, give me bread,
Give me bread, or will I die!”
“Aspetta, aspetta, mio caro bambino,
Domani, domani lo setacceremo.”
Ma quando il grano fu setacciato
Il bambino era ancora affamato.
Mother, oh Mother, es hungert mich.
Gib mir Brot, sonst sterbe ich!
“Madre, oh madre, dammi del pane!
Dammi del pane, non voglio morire!”
“Aspetta, aspetta, tesoro caro,
Domani, domani lo inforneremo.”
E quando il pane fu messo nel forno
Il bambino era a letto, era morto!
Non c’era niente da fare, era morto.
Mother, oh mother, es hungert mich!,
Gib mir Brot, sonst sterbe ich!
Wait, only wait, my beloved Kind,
morgen wollen wir backen geschwind.
Kavafis
Chiusa la stanza, prima di dormire,
s'accende una minuscola candela.
Il brucia-essenze manda odor d’agrumi
e alla penombra oscilla la fiammella…
Brucia, e si squaglia, senza far rumore,
pure par di sentirlo il crepitio,
di sentirlo guardando la scintilla e la cera. Frattanto
lo stereo ha incominciato a funzionare:
Notte trasfigurata ha inizio, lenta,
circonfusa come un sogno d’oltremare.
E d’un tratto pare stia bruciando incenso,
ne senti, ne desideri l’odore
e vorresti trovarti in riva al mare
(par di sentirlo, di udir lo sciabordare
dell’onda, la risacca e il profumo
penetrante di sale e d’alghe morte;
pare di avere, fra le dita, la sabbia
che accarezza, calda nella notte
fredda, i nostri corpi)…
Pare di essere dentro quella scena
di C’era una volta in America, quando Noodles,
offerta a Deborah una cena al Grand Hotel,
srotola un rosso tappeto fino al mare
- i contrabbassi danno inizio al canto
cupo, profondo, dei sogni già sfumati -
Tutto questo, per me, è il verso di Kavafis.
Le mie mani
Le mie mani passando sul tuo corpo
sono le mani della primavera
che quando la bronzea campana d'inverno
ha cessato i rintocchi gelati
riportano acqua e frutta e fiori e luce e calore
Le mie mani passando sul tuo corpo
sono le mani d'un restauratore
che toglie la polvere frutto dei letarghi del tempo
e riporta alla luce il tesoro della tua bellezza
Ti ho suonata come lira
con le mie dita di poeta
Ho raccolto ogni goccia di sudore
con le mie mani che passando sul tuo corpo
lo hanno pulito
dal dolore
Desolazione
Traverso scheletri d’alberi stecchiti
passa la voce d’invisibili uccelli:
cinguettii freddi come stalattiti
di ghiaccio che si staccano dal cielo e vanno giù.
Arno
I riflessi a strisce
della luna argentata
formano il gigantesco
organo dei ponti
Un pomeriggio ho visto
nubi grigio-giallognole
e cielo azzurro scuro
riflessi in quell’acque fangose
Un mattino, a primavera
il placido manto del sole
panneggiava case e nuvole
era lastra di miele sul fiume
Ho traversato il ponte
in compagnia dell’eco
della tua voce murmure
nella memoria
Ho costeggiato il fiume
come fosse il tuo letto
ho nascosto il mio corpo
dove solo i migranti s’asciugano al sole
Eravamo soli
come nessuno al mondo
mentre i nostri pensieri
si parlavano
annegato
acqua di acqua e poi acqua ancora. il corpo pesa, i razzi volano. il cielo scompare, appare e scompare, i razzi da sopra, i razzi da sotto. il corpo si gonfia, un respiro brevissimo e poi acqua, un respiro spezzato, più spezzato, il cielo è un miraggio, frazioni di secondo, e poi acqua ed acqua, i razzi da sotto, le mani si dimenano, il corpo si dimena ma l’acqua spinge giù, l’acqua è forte, è come avere le catene ai piedi, a tutti gli arti, si va giù. non respiro, imbarco acqua. perché? non c’è tempo. l’ultima cosa che sento è l’aria che manca. l’ultima cosa che sento è la rabbia perché la vita sta soffocando, i porti, le persone, arrancare, sperare. imbarco acqua. non sono pronto. ho vita ancora. ma il corpo è bloccato. acqua di acqua e poi acqua ancora. i polmoni scoppiano. sento sempre meno, sto entrando nella morte senza essere pronto, ci sto entrando con tutta la rabbia. acqua di acqua e poi acqua e ancora. acqua e più nulla. si va giù.
Elì (Preghiera in mare)
Sale dal fondo della terra un canto di disperati. Sale il logos degli esseri privi di colpa. Una mandola, un sitar, un gatto nascosto nella stiva. Dormono sotto terra, ma non dormono in pace. Dormono senza terra, dormono in mare. Dormono con gli occhi svegli. Dormono senz’occhi, diventati nido d’alghe, passaggio di plancton, corridoi d’acqua marina. Pesci minuscoli ci giocano dentro. La vita continua. Loro no. Il mare continua. Loro sono finiti. Sono finiti ma non sono fermi. Non possono fermarsi. Ancora e ancora! Itaca! Da Sirte e Aleppo! E l’Italia, un sogno di maggio. E l’Italia, un naufragio ad ottobre.
Non dormite in pace! Vi passi il sonno finché loro non dormono in pace. Itaca non esiste. Itaca è un muro d’odio.
Sale un salmo: Adonai, Adonai! Sale un urlo: Elì!
(Elì risponde: perché mi chiedete dove sono, e non chiedete dov’è tutto il pianeta…)
(Elì, la sua voce bianca di ragazzo di Aleppo…)
Birkenau
Qui la neve non smette di cadere
e gli alberi sono tutti spogli e bianchi,
sembran di marmo, congelati, senza tempo.
Dappertutto c’è filo spinato,
dove una volta ci passava la corrente.
E se mi volto si ergono torri,
torri di guardia, o di canne fumarie… Qui la neve
copre tutto, uccide tutto, anche il ricordo.
Qui a Birkenau non c’è fantasia,
neanche per immaginare come vivevano:
basta il terrore suscitato dal camino
così insulso all’apparire, e di cui sai
che serviva per bruciare i corpi morti.
Basta il fiore deposto sopra i letti
di legno sozzi e rotti,
sorretti da muri di pietra.
Basta quell’unica stufa per riscaldarli tutti
quando noi sentiamo freddo nei cappotti.
Qui tutto quello che arriva ci muore,
anche il ricordo ed il sogno, anche il fiore:
meglio allora gettare dei sassi,
quelli che gli ebrei lascian cadere sulle tombe:
sassi, non fiori, perché un sasso è per sempre
e perché un fiore, quaggiù, è troppo gentile.
La vita del borgo
Dal mio punto d'osservazione, osservo. E' il privilegio del non avere una vita. Liberarsi dall'ingombro dell'io, trasformarsi in un puro punto di vista. Gli aerei che volano. Le macchine. Negozi aperti per nessuno. Le parole degli uccelli che cadono dai rami. Il rimbombo della musica di un baraccone. Camion che scaricano merci -per chi? Ascolto uno scampanìo di bottiglie e non vedo i bevitori. Passano giovani come fantasmi scampati a un'inondazione. Sembra che l'umidità li abbia sommersi. E' finito l'impero romano. E' caduto, i messi non sono ancora arrivati, ma ne parlano gli uccelli, gli ideogrammi funebri degli uccelli che cadono giù dagli alberi. La rivoluzione francese deve ancora venire. La croce sulle chiese è la croce di Ildebrando di Soana. San Francesco e Rousseau devono ancora liberare gli schiavi. Il borgo vivrebbe anche senza di noi. Le foglie si accartoccerebbero e diverrebbero rosse, i bambù del ristorante di pesce -aperto per chi?- diventerebbero decrepiti e poi diventerebbero morti. L'insegna che lampeggia APERTO e i biliardini resterebbero come fossili dopo un'inondazione. Gli uccelli manderebbero i loro simboli a un vento libero di parole. Passerà la vita del borgo. Resterà il borgo.
Gli ambulanti
Dal mare si lancia una corsa di vento. Prende la strada larga, s'incanala raccogliendo affluenti dagli slarghi che mirano al porto. I figli incestuosi dei venti sfiancano i teli delle bancarelle, le bancarelle fanno vela, i venti figli d'incesti di venti spaccano i cardini, slegano i legacci, rovesciano la mercanzia in mezzo alla strada. Le lampade cinesi di carta si contraggono, possedute dai figli incestuosi dei venti. L'altoparlante di un'auto affida alla cattiveria dei venti parole razziste in dialetto napoletano. Siamo meno forti delle lampade. Siamo appesi come i teli che mo' mo' si sganciano. Siamo buttati a terra come i teli violentati dai figli dei venti. La lampada cinese vacilla, la mercanzia scaraventata a terra, noi arrabattati a raccoglierla. La lampada cinese si spegne, la lampada scaraventata per terra, tutto striscia sull'arena, non si riconosce il mio dal tuo. La macchina razzista ha trionfato. In fondo alla strada, calmo e maligno, sta il serpente del mare generatore dei venti.
I gatti del porto
Timidi e paurosi si avvicinano i gatti. Li chiami, non ti ascoltano. Sentono solo l’odore del cibo. Studiano il tuo corpo e decidono se sei amico o nemico. Non parlano perché con la parola si mente. Ma cantano, perché nel canto non si mente. Anche tu, perché ti ostini a tradurre in parole i canti e suoni che ti scoppiano in cuore? Le parole sono ombre di ombre. Lancia come palloni le parole, fai come i gatti e cantale! I gatti si avvicinano. Prima il gatto dominante, poi tutti gli altri si fanno d'attorno al tuo cibo. Non chiedono altro. Non chiedere ai gatti di parlare. Ma guarda il loro corpo. La loro compagnia è più intensa se sono distanti. Guardali!, la natura ti parla nei gatti. La natura ha paura. I gatti del porto: belve bambine che si muovono come ombre. Piccoli autistici impauriti da tutto fuorché dalle loro abitudini. Guardali e impara. Getta i significanti nel canale: abboccheranno alla rete di qualche pescatore! Il senso non esiste. I gatti lo sanno. Lascia andare la tua buffoneria, lanciala come un pallone. Vestiti del silenzio, vesti del canto dei gatti…