nasce il 10 ottobre 1968 a Bergamo., All’età di soli dodici anni e mezzo rimane orfano di madre, la quale decede per un cancro al fegato. Essendo molto legato alla madre, Daniele presagisce che ne soffrirà per lungo tempo con conseguenze devastanti. Infatti alla sola età di tredici anni inizia a far uso di sostanze stupefacenti con a seguito problemi non indifferenti , nell’aprile del 94 incontrerà, Maura che riuscirà a toglierlo dalla droga e dall’alcol con il solo amore. Per circa 4 anni tutto sembra filare alla meglio sino a quando nel dicembre del 97 nasce sua figlia Silvia . Ritorna l’incubo della droga , questa volta la cocaina che lo porterà a bruciare qualsiasi cosa trovi davanti. ed il torbido lavorio mentale che la sostanza provoca su di lui lo porta ai più bassi livelli umani.Indotto dal non aver più nulla nell’ottobre 1999 viene inserito in una comunità di recupero .Lavora presso una casa che accoglie malati d’aids da circa tredi anni, tutti i rapporti sono stati sanati e vive con la compagna Alganesh l’amore della sua vita ed ha un rapporto bellissimo con sua figlia che adora.
Nel 1981 inizia la sua passione per lo scrivere poesie e piccoli racconti.Scritti che si rivolgono molto alla figura materna, all’amore , alla disperazione . non prevalgono argomenti specifici nei suoi scritti ;ma qualsiasi cosa venga dai suoi recessi tenebrosi ,si trasforma in poesia.
Col passare degli anni migliora il modo di scrivere ed il contenuto sino a portarlo a toccare le corde più profonde dell’animo umano.La poesia rimane per lui l’unico sostentamento di salvezza , di cui non può farne a meno. Il suo pensiero costante è quello che l’uomo debba ritornare alla semplicità delle cose , in cui v’è la risposta a tante sue domande; e dove l’uomo può veramente tornare a vivere una vita piena,in un mondo obeso di false promesse e di materialismo; in un mondo ove l’amore dovrebbe occupare il posto più alto, se no rischia di essere oppresso dalla tecnologia, dall’ingordigia di possedere tutto per sé. Ma il rischio più grosso rimane quello dell’uomo e dell’individualismo che ormai lo pervade.
Stanzetta solitaria,ove fiorirono le fantasie;
pareti disadorne, che vi ornaste per me di mille colori scoppiettanti,
agitando cosi misteriosamente quell’umile talento !
Soffitto semplice cui si volgevano i miei sguardi,
e da cui disordinati pensieri e idee precipitose
traevano una disposizione semplice ed ordinata,
simile a quella dei tuoi travicelli!
O finestra dalle imposte opache dal tempo,
che il vento empiva di fischi e la pioggia di perle;
mirabile astuccio entro cui brillavano s’un velluto azzurro i gioielli del cielo!
E tu vecchia libreria, vestita di polvere e animata da tarli sapienti;
tu retaggio dei miei antenati;
che allorquando uno dei tuoi libri,
di quelli che avean servito di nozioni altre menti
veniva prescelto da me , parea ti rallegrassi tutta,
come tutta sembrava t’arcigliassi arcigna,
quando la mia giovine curiosità,
mi portava ad occuparmi di qualche fresco e magari poco edificante romanzetto!
Come sei nel mio ricordo!
Cari vecchi mobili diletti,scricchiolanti di rovina,
operosi ed incitatori,dal sentore acre di vecchiaia,
che contribuiste a creare intorno a me
l’atmosfera romantica piena di poesia e di ricordi che tanto amo!
Stanzetta diletta dove l’opera quella mia si svolse perfida e proficua.
Ambiente piccino, che sapesti dare ai miei orecchi ed ai miei occhi,
il rumore dell’onda e i fulgori della luce, t’ho abbandonato!
Destino delle cose amate a lungo;
tormentosa brama di sopravvivere al vissuto,
e di scavar delle tombe per inondarle di rimpianto!
Ancor oggi ti ripenso, come a un caro vecchio amico
Che prende parte ai trastulli d’un fanciullo
E se ne sente comunicare la vita.
Oggi quel fanciullo è se fatto uomo, cosi dice il tempo;
ed ha una stanza piena di sole ed aria,
ma dalle pareti troppo fresche ancor,
per poterle cementare di ricordi,
troppo gaie per saper le più profonde corde dell’animo umano :
quelle del dolore, e troppo diverse da quell’altre
che formarono la cara ed avvincente nicchia dei miei pensieri.
Ancor prima che’l mattino, volgesse mira alla dimora umana,
un inquietudine colma di presagi, s’accostò con aria raggira;
spogliando d’ogni cosa un’immatura giovine vita.
Ogni speranza fuì, con se portando la certezza più interiore.
Mia madre.
Ricordo il tempo ,in cui l’ansia le dipinse il volto,
in uno stato di penosa attesa;
ponendo in lei qualcosa di spettrale.
Quel mirar fisso innanzi a sé ,
non prendeva parte allo spettacolo della vita.
Non solo; ma l’espressione quella sua,
parea dir ch’esso era irreale , come se l’esistere
fosse una trappola , satura d’intimità offensiva.
Ed il movimento suo , soltanto non avea quel che d’impacciato,
ma pure l’incuria ; quella di coloro che giunti alla resa;
dalle inimicizie debbono continuamente difendersi.
E nello spronar l’ultimo respiro, prima dell’eterno silenzio,
si liberò dagli affusolati ed incomodi artigli,
riponendo al suo corpo la placida calma;
e nel mio ancor fresco pensiero l’incolmabile vuoto.
Ma che misera menzogna,
scontrosa cupa, trasparente e malata.
Il corpo, la mente,non obbedisce più alla volontà se non in apparenza;
è un meccanismo guasto,
una macchina dalle ruote arrugginite e dai tubi rotti ;
ch’egli respiri , inghiotta, digerisca, afferri è tutto un inganno.
Il concetto di vita gli fa senso, mucillaggine gonfia di voluttà maligna,
ove il petto non è che un breve recesso tenebroso
con un muscolo sussultante in mezzo,
che poeti sognatori si son sempre sforzati
con ingegnosità di far apparire un vaso di virtù.
Allora il cuore infranto desidera la soluzione finale,
magari l’agonia mortale lenta ed atroce;
non si vede,non si sente nulla più si prova;
non si vuol più combattere, si rinuncia si tace.
Tutto è indifferente.
Perciò la soluzione finale, appare come la pace nella tomba.
Ed il resto come dire, è cosi:
alito sul dorso della mano.