Già docente negli istituti superiori.. Poetessa e autrice di racconti che compaiono su importanti raccolte antologiche, ha pubblicato di recente:
-Giovanni De Paula, medico, credente, pellegrino. ABE Edizioni.
-Caramelle di zucchero e altre nostalgie. ABE EDIZIONI.
Giace nella penombra di una stanza spoglia, invecchiata dalla solitudine che adesso accompagna i suoi giorni.Un tempo erano giorni di libri, di scuola , in un liceo di cui non ricorda più il nome né il brusio dei suoi tanti allievi. L’università, l’applauso finale nell’Aula Magna, la laurea come premio finale, sono ricordi che a tratti galleggiano, nel torpore comatoso del suo sonno, senza fine, né principio. Un’ombra silenziosa vaga intorno al suo letto, come una farfalla notturna: a stento ne percepisce il fruscio dei movimenti ma non riesce a distinguerne l’entità, se di donna o di fantasma della mente, incapace di afferrare i contorni delle cose. Irina, la badante polacca, l’assiste, incerta e pietosa, ascolta il suo respiro ansimante nelle ore notturne che si popola di lamenti e farneticazioni. Ha lasciato il suo mondo, la lingua dalle sillabe rotonde e scivolose, la macchia verde scuro dei boschi della sua terra, per un viaggio verso l’ignoto. E il suo ignoto è la vecchia signora che dorme e che grida la sua insensata sofferenza che nessuna medicina può guarire. La vita diventa inutilità senza la normalità di un risveglio: la prima colazione con il buon’ odore del caffè sorbito caldo e zuccherato, la corsa verso il luogo di lavoro,
poi la spesa, le uscite serali, il cinema o il teatro e la pizza fra amici, gli imprevisti fastidiosi, i momenti gioiosi della festa, i dolori e le delusioni ,immancabili come il sale nelle pietanze. Irina badante a tempo pieno, venuta da Cracovia con un viaggio durato più del tollerabile, sta imparando a regolare la sua nuova esistenza, attraverso i tormenti e le imprecazioni della vecchia signora che, un tempo, doveva essere stata bella e gentile, quando insegnava in una scuola di città, inflessibile custode di un sapere che la sua mente offuscata ha cancellato, come la gomma fa con la scrittura. Alzheimer, punto e basta! Lo ha detto il medico a Irina come una parola d’ordine, un mostro dai mille tentacoli che mangia a poco a poco il cervello, ne divora pensieri, palpiti e gesti che assomigliano a treni vuoti su binari morti.La malattia allontana amicizie e parentele, la vecchiaia è un tabù che è necessario esorcizzare facendo finta che non esista, maggiormente quando ad essa si accompagna una condizione di demenza, quella dimensione sospesa fra l’essere presente a sé stesse e non essere più in grado di riconoscersi, di ricordare qualsiasi attimo del proprio vissuto. Era stata un’insegnante per tante generazioni di giovani, la vecchia signora che adesso giace nella penombra di una stanza spoglia e,
in certi momenti ,dal suo continuo dormiveglia, la sua mente riprende a viaggiare fra aule che hanno l’inconfondibile odore di inchiostro e di gesso, nella confusione di cento voci che si rincorrono su scale e in corridoi, al suono puntuale della campanella che segna l’inizio e la fine di ogni lezione. << Perfetto o piuccheperfetto? Imparate a riconoscere il verso spezzato, la grazia di certe immagini femminili evocate da Montale, le forme verbali, altrimenti il periodo non torna ! >> Irina, ogni volta che ascolta il ridestarsi di una realtà diversa logica e puntuale, raccoglie tutta la premura possibile, per assecondare, nella signora, quel filo di coscienza che le possa restituire l’ umanità perduta. Poi tutto ripiomba nell’ombra dell’oblio ma, a una carezza o un sussurro amichevole, si riannodano i fili slabbrati dei ricordi e, nella vecchia signora riemerge, come da flutti torbidi, il vaso di Pandora, straripante di luce, di esistenza, di poesia.
Era da tanto che la sua anima aveva voglia di tornare,in quel paese,dove era stato sacerdote, anzi arciprete, negli anni della prima guerra, ritornato poi, dopo un lungo periodo, trascorso altrove. Aveva amato da subito quella sua parrocchia e quel luogo scelto a dimora, forse per sempre: una terra schiva e solitaria che non mancava di atmosfere e suggestioni che menti trepidi e sensibili sanno cogliere o solo percepire.
In quelle contrade, dove la vita era grama, per contadini e braccianti,fra agiati proprietari e notabili locali,quando la scala delle gerarchie era organizzata secondo schemi e modelli di una tradizione culturale dura a morire, aveva tranquillamente scelto di vivere in modo semplice da “prete” di abitudini francescane, dissacrante e burlone ,sempre portato a sorridere di sé delle “cose” del mondo. E i suoi parrocchiani lo ripagavano con affetto e calore:dolciumi e attenzioni discrete erano la risposta ai consigli, all’ assistenza morale che l’ arciprete sapeva distribuire, fra una battuta e un gesto ironicamente amorevole.
Poi la vita lo aveva segnato, una malattia breve e inesorabile aveva posto fine ai suoi giorni e quell’ amato paese del
quale aveva ricercato le origini fra vecchie carte e polverose biblioteche, riscrivendo la storia delle radici di un microcosmo, a sud dello stivale, era solo una storia d’ amore e nostalgia per un luogo che di esclusivo non aveva che la miseria semplice e il calore della gente. Non gli era stato più possibile ritornare, il tempo, con i suoi eventi, a volte terribili, aveva sconvolto l’ ordine pacifico di quei luoghi: la terra aveva tremato a lungo e tutto ,in un soffio, era stato cancellato.
Era arrivata,col tempo, la ricostruzione e, pietra dopo pietra,molte cose erano tornate al loro antico posto,anche se niente era stato come prima.
Ancora non era riuscito a tornare alla sua antica canonica, a malapena rimessa in piedi, col campanile che sembrava, di pomeriggio, toccare il cielo,fra nuvole rosate,sfumate di azzurro, verso l’ orizzonte.
E un giorno la grande occasione: la riconsacrazione della chiesa grande di quella sua parrocchia rinata, dopo il terribile evento.
Era giunto per lui il tempo di tornare, il sogno della sua vecchia anima si realizzava in un mattino di giugno ,con il primo caldo gradevole ancora, prima che scoppiasse l’afa di piena estate. Era andato via con l’ abito talare di sempre, ,con il volto serioso, appena illuminato da un guizzo negli occhi, come un sorriso.
Avevano impacchettato, con carta giallognola da imballaggio, il vetro che incorniciava l’ ovale giovanile, protetto da minuscole palline di polistirolo,il tutto infilato in una busta sigillata da ceralacca rossa. E la sua anima era partita, aggrappata alla patina del suo ritratto.
Era Elodie anche se molti ne storpiavano il nome, chiamandola Lodia. Lodia o Elodie non l’ ho mai dimenticata e ritorna da un mondo sommerso,quasi non fosse mai esistita,aristocratica figura di un tempo lontanissimo e della quale conservo nitida l’ immagine,il colore degli occhi, la pacatezza dei modi,il suo apparire quasi in punta di piedi, timorosa di affacciarsi alla vita degli altri anche con la sola presenza ,col suo fascino che lasciava un’ impressione indefinibile. E indefinibile era la signora Elodie,dal passo leggero e a volte insicuro,con gli abiti passati di moda,le camicette dal collo a gorgiera,le gonne a tubino che la facevano apparire ancora più alta e sottile. Veniva spesso a visitarci,sempre alla stessa ora,nel primo pomeriggio restando in piedi e solo dopo molte insistenze,si riusciva a convincerla a sedersi. Sorbiva tè, nel quale inzuppava qualche biscotto leggero.<<Solo tè ! >> diceva, rifiutando in modo categorico il caffè che a suo dire,era una staffilata sui nervi. Se ne stava tranquilla ad ascoltare i discorsi degli altri,seguendo con sguardo attento e non senza fastidio, ogni gesto o espressione che sembrava contrastare la sua apparente placidità. La vedevo spesso passeggiare da sola,perché
Elodie non aveva amici,tranne quei pochi conoscenti con cui intratteneva rapporti molto formali. Non ho mai saputo di che vivesse,se avesse avuto, in gioventù, un lavoro , un marito ,un compagno,dei parenti,di lei non rimane che un ricordo sfocato,depositato in qualche parte recondita della mente ma non del tutto sbiadito se nel tempo continua a tornare,quasi bussando con insistenza, per essere rappresentata in un racconto come un fotogramma di una donna diversa e misteriosa insieme. Ancora oggi,a distanza di tempo, appare difficile trovare risposte ad avvenimenti che trovano spiegazione solo mettendo da parte ogni forma di razionalità,affidandosi esclusivamente a suggestioni a dir poco,surreali.Donna misteriosa,questa era l’ impressione che mi aveva accompagnato fin da quando avevo visto,per la prima volta Elodie, quando veniva a casa mia e si tratteneva,sempre in silenzio,anche per interi pomeriggi. Poi,un mattino,passando per caso accanto ad un vecchio palazzo mezzo diroccato,mi ero sentita chiamare da una piccola finestra: era lei che agitando una mano, mi invitava a salire. Ero entrata in una stanza e, non senza sorpresa,l’ avevo trovata piena di mobili accatastati,alcuni coperti da panneggi impolverati,come accade,in occasione di partenze prolungate.
Così diceva,con voce terribile,alzando le braccia,roteando il busto e gli occhi mentre un coro monotono, ripeteva le sue parole. Assistevo pietrificata a quel macabro teatro dell’ assurdo,senza capacitarmi della trasformazione di una donna che ricordavo gentile e misurata, nei gesti e nelle parole. Sembrava che non si accorgesse della mia presenza ,come se non mi vedesse o riconoscesse lì ,accanto a quegli uomini, a quelle donne che avevano assunto l’ inconsistenza di ombre. Facevo fatica a ricordarmi di Elodie , dei suoi silenzi ,di quando beveva tè al limone,con qualche biscotto leggero e con la sua aria mansueta. Avevo di fronte un ‘ altra donna,solo questo intuivo e non trovavo giustificazione alcuna o risposta, a una tale trasformazione. Mi venivano in mente le Metamorfosi di Ovidio che stavo studiando quell’ anno , a scuola.<< A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’ estro….>> Mi sentivo d’ improvviso vulnerabile, di fronte a una realtà che non riuscivo a controllare,mentre un senso di vertigine sembrava paralizzare la mia volontà. Volevo fuggire,lasciare quella stanza e quella casa,ma per quanti sforzi facessi, mi era impossibile muovermi,come se una forza diabolica annullasse ogni tentativo di reazione.
Avevo nelle orecchie la voce stridula di Elodie che ripeteva, come un ossesso, parole indecifrabili che, simili a un’ eco lugubre, rimbalzavano in ogni angolo della casa, sulle scale, oltre i battenti dell’ androne di quel palazzo diroccato. Mi ero ritrovata di colpo,e non so come, in strada,senza avere la consapevolezza di come ci fossi arrivata,fuori da quell’ abisso indefinibile che mi aveva prostrato l’ anima. Non avevo più visto Elodie nei giorni successivi, né in seguito. Non si era più vista in giro e la sua assenza non era stata notata più di tanto. Neppure in casa si era mai parlato di quella donna gentile e silenziosa,dal passo leggero e dai modi garbati. Solo in seguito,quando quel palazzo era stato demolito,qualcuno aveva parlato di una donna di un’ antica famiglia del luogo che aveva abitato in quelle stanze, morta ancora giovane di polmonite, dopo lunga degenza in una casa di cura. No,non poteva trattarsi di Elodie! Non poteva essere lei !
Serata di fine estate,al tavolo di un bar
Ci sediamo al primo tavolo libero e il cameriere,nella penombra è una sagoma scura. Ha portato un vassoio tintinnante di bicchieri ricolmi che non ricordiamo di avere ordinato e ,al centro una coppa di gelato che assomiglia a un fiore di panna e pistacchio. Incontro Roberta, dopo molti anni e con lei altri amici,tutti ritornati per amore di un luogo che ha radici lunghe che affondano nel cuore. Serata di luna piena che illumina la piazza grande e silenziosa,tranne per il bisbiglio di coppie intende a raccontarsi le emozioni di un’ estate che declina. Roberta è euforica,parla della bellezza di quelle giornate,trascorse fra verde e pace,riannoda i fili di un passato che credevamo sepolto dagli avvenimenti successivi. Felicità per me, per gli altri,per Roberta che dice della sua vita a Roma,dei suoi studi,del suo lavoro di medico impegnato,della nostalgia per quella terra dagli inverni nevosi e solitari,lontana dalle città di mare,animate e assolate! Serata di luna e di nuvole, giunte all’ improvviso,portate da un vento che scuote gli orli delle tovagliette, ai tavoli del bar. Roberta d’ un tratto sembra mutata, attraversata da un’ inquietudine,una ferita mai rimarginata,come la saetta che ha spaccato le pietre di questa grande piazza,ha attraversato porte e finestre,marchiato case come un destino già scritto sulla terra d’ argilla di queste contrade che, in una sera d’ autunno ha visto la fine dei suoi giorni. <<Ho cercato per ore –mormora- ho sperato che fosse viva da qualche parte!>> E con gli occhi sembra ancora vagare,fra macerie e lamenti. Serata di luna, ormai scomparsa, fra nuvole dense di tristi presentimenti. Una donna ascolta e ha un sussulto,ricorda quello che è stato,i suoi sedici anni svaniti nel vortice che risucchiava la vita,per un tempo infinito,i poveri corpi allineati sul prato dei giochi e lei che scavava fra i sassi,senza disperazione né più speranza. Serata di luna piena con le nuvole fuggite lontano, come i cattivi pensieri,in questa nottata di fine estate,al tavolo di un bar. Roberta si asciuga furtivamente gli occhi, pensa alla festa di domani, ai dolci che odorano di naspro e colorano le vie. Serata di luna d’ argento che si specchia nelle strade nuove, del paese che dorme. Qualcuno ha lasciato una finestra spalancata perché un riverbero di luna dia l’ illusione che sia ormai giorno chiaro.