Sono nata a Terni, dove, dopo un periodo di residenza a Perugia, sono tornata a vivere e lavorare. Per la precisione, vivo in campagna in un paese che si chiama San Gemini. Mi sono sempre interessata di letteratura. Oggi lavoro come insegnante di Lettere in una scuola media.
Ho partecipato a concorsi letterari. Alcuni miei racconti sono stati pubblicati nella raccolta “Racconti” di Poeti e poesia Ed. Pagine, rivista curata da Elio Pecora. Per Giulio Perrone è stato pubblicato un mio racconto nella raccolta “Parole di pane 2”. Sono arrivata seconda al concorso letterario dell’Alexandria Scriptori Festival (Premio giuria popolare) e terza al concorso letterario “Una rosa per Alda” di Torre Alfina. Il racconto presentato, Cuore di plastica, è stato pubblicato nella raccolta “Una rosa per Alda” da Intermedia Edizioni. A giugno 2014 è stato pubblicato da Intermedia Edizioni il mio primo romanzo, “Si sta facendo tardi”. Attualmente sto lavorando al secondo romanzo.
La cicatrice è lì, all'inguine. Bianca, sottile, un piccolo solco sulla mia pelle candida. MEMENTO MORI.
Lo ricordo perfettamente, d'altronde sono una sopravvissuta, una miracolata, una che avrebbe dovuto già essere concime per piante.
Apro l'acqua della doccia. Il rumore dello scroscio poderoso mi svuota la testa. Comincia a formarsi il vapore, all'inizio appena un'acquerugiola che sale velocemente verso il soffitto, poi nebbia corposa e materica che avvolge tutto. Avvolge me, il mio corpo nudo, le mie paure, la cicatrice, il dolore, la convalescenza. Entro nel box e mi faccio abbracciare dalle mille dita dell'acqua calda. Sembrano mani esperte che sanno dove fermarsi per farmi stare bene, per far passare quel senso di oppressione al petto, quell'incudine di ferro che spinge sulle mie costole, sempre più forte, sempre più giù, fino a schiacciarmi e non farmi respirare. Mi insapono: estratto di aloe, pianta miracolosa quanto inodore.
Non so dire con esattezza quanto tempo rimasi sotto la doccia, forse quindici minuti, forse trenta, forse un mese. Mi sembra quasi di sentire la voce di Luca che mi chiama e dice: "Piccola, vieni fuori. Vieni da me".
Luca.
Sembra passata una vita, e in effetti è così.
Mi avvolgo nell’accappatoio di cotone morbido e mi sdraio sul letto. Chiudo gli occhi e cerco di ricordare. Brandelli di un'esistenza normale si affacciano alla mia mente: io e Luca al mare, le nostre vacanze in Grecia, le domeniche fuori porta, la malattia. Una crepa profonda nelle nostre vite, un taglio netto sul mio corpo, una cesura nella mia mente, una spaccatura nella nostra coppia. Quando ci incontrammo io e Luca fu subito attrazione, passione, vita, tanta. Ci piaceva rimanere a lungo a letto abbracciati a guardare fuori: dalla finestra piccola di legno si vedeva un pino secolare che d'inverno oscillava maestoso davanti ai nostri occhi sbalorditi. Di noi, di quello che avevamo, di come eravamo. Pensavo che mai prima mi ero sentita così bene, mai con un uomo. Ero felice, innamorata, immortale. Almeno così credevo.
Finché un giorno, facendo la doccia, la vidi: una bozza enorme all'inguine destro. La guardai stupita. Avevo fatto la doccia anche la sera prima e non avevo nulla e ora? Cos'era quella roba? Con prudenza la toccai: era turgida e dolorante appena. D'istinto controllati gli altri linfonodi: anche quelli del collo e della gola erano gonfi. Non telefonai immediatamente a Luca, come invece avrei voluto, ma alla mia dottoressa. Le spiegai la situazione e lei mi disse di andare subito in ambulatorio.
Mi vestii come un automa, presi la macchina e, non so come, riuscii a raggiungere lo studio di Anna Maria. "Entra Carla, stai tranquilla. Ora ti visito e facciamo un'ecografia”. Si infilò i guanti di lattice che schioccarono beffardi. Io ero distesa sul lettino e avevo smesso di respirare. Il cuore non batteva, il sangue non circolava, i polmoni erano vuoti. Sprofondai in un buco nero quando Anna Maria disse:" Faccio un'eco al fegato". Ecografia al fegato, cazzo, allora è un tumore! “Non saltiamo subito a conclusioni negative ed affrettate”. Stronza, l'hai detto tu che mi avresti fatto un'eco al fegato, mica io. “Non ci sono masse sospette al fegato, stai tranquilla”. Come no, che ci vuole?
Ho 29 anni, una vita tutta da vivere e devo stare tranquilla. “Ora passiamo ai linfonodi inguinali, mmm si stanno colliquando”. Colliquando? E cosa vuol dire? Non l'ho mai usato questo verbo. “Vuol dire che si stanno autodistruggendo. Dobbiamo scoprire perché”.
Quando uscii dallo studio di Anna Maria avevo la testa vuota e la borsa piena di fogli pieni di analisi che dovevo fare. URGENTE, così aveva scritto sui fogli rossi dell’impegnativa, in settimana avrei avuto le risposte. Tornai a casa. Mi rannicchiai sulla poltrona, lasciando che il telefono squillasse di continuo. Il cellulare era spento dal pomeriggio, tutti mi cercavano a casa: mia madre per le sue raccomandazioni serali, Carlo per dirmi non so cosa, magari anche qualche amica. Chi se ne frega. Voglio stare sola. SOLA SOLASOLA, possibile che non lo capite? Ho una battaglia da combattere, devo raccogliere tutte le forze, concentrarmi su me stessa. Del resto, francamente me ne frego.
Sono le 11 di sera quando sentii suonare il citofono prima in modo tranquillo, poi sempre più concitato. Drindrindrindrin.
Eccomi, arrivo, ora mi alzo da questa poltrona che mi ha quasi fagocitato, cammino verso il citofono e rispondo. “Carla, accidenti, mi hai fatto prendere un colpo. Ma dove cavolo eri finita? E’ da oggi pomeriggio che ti chiamo. Apri!”. Luca entrò come una furia, mi abbracciò con quelle sue braccia forti. Mi strinse a sé. Cosa è successo?
Non ricordo le parole esatte che usai per dirgli che ero malata, che i miei linfonodi si colliquavano (da allora l’ho sempre usato questo verbo!), che dovevo operarmi e poi…poi non sapevo cosa sarebbe successo.
Lui mi ascoltò impietrito. I begli occhi marroni cristallizzati. Cominciò a segnare i contorni del mio viso con le sue dita lunghe, da pianista. Le adoravo le sue dita, gliel’avevo sempre detto. Con le mani mi circondò il viso. Mi baciò e disse: “Ce la faremo!”.
Quando una persona deve affrontare una prova difficile, come quella di una malattia importante, è fondamentale l’aiuto di familiari ed amici, così stava scritto nella rivista medica nello studio del chirurgo che doveva operarmi. Decisi di andare da sola, senza Luca o mia madre.
Non volevo occhi acquosi intorno, né sguardi preoccupati. Bastava il dolore lancinante che avevo giorno e notte dentro a ricordarmi che il momento per me era delicato. Entrai nello studio. Mi spogliai. Il chirurgo guardò attentamente tutti i linfonodi sentinella, con lo sguardo serio e impegnato di un bambino che sta costruendo una fortezza coi Lego. Guardò le analisi, mi fece rivestire e sedere di fronte a lui. “Non è un sarcoma, nemmeno sarcoidosi, altrimenti avremmo delle analisi con valori diversi. Potrebbe essere una malattia rara, che noi occidentali ignoriamo…le analisi sono chiare. Dobbiamo operare, togliere i linfonodi malati e poi vediamo”: “Sì, comprendo dottore, ma se tra due mesi dovessero infiammarsi altri linfonodi, magari quelli della gola o delle braccia?”.
“Dovremmo togliere anche quelli! Il suo corpo non risponde né agli antibiotici né al cortisone, non abbiamo scelta”. “Dunque, è questa la prospettiva di vita che ho? Togliere i miei linfonodi, finché ce ne sono?”.
Abbassò lo sguardo, “Mi dispiace”. Sembra assurdo, ma era sincero.
Venni operata il 13 febbraio, il giorno prima della festa degli innamorati. Ormai dell’amore non mi interessava più nulla. La sola presenza di Luca a volte mi risultava insopportabile, un intralcio, una distrazione da quello che ora era il mio scopo: sopravvivere. Entrai in sala operatoria e vidi il viso contratto di mia madre e di Luca. Quando uscii, avevo un dolore fisso all’inguine, come se qualcuno stesse usando sul mio corpo la fiamma ossidrica per aprirmi, squartarmi, dissolvermi. Cercai con la mano di toccarmi, ma mamma mi bloccò subito. “Tesoro, ha detto il dottore che se senti tanto dolore per stanotte ti danno qualcosa”. Qualcosa? Morfina? Valium per dormire? Paracetamolo? Cazzo, mi fa malissimo datemi quello che vi pare ma fatelo subito, il dolore mi sta consumando.
Passò così la prima notte in ospedale, poi la seconda e infine uscii. D’altronde l’operazione era stata una passeggiata per il chirurgo: aveva aperto, tolto tutti i linfonodi inguinali, destri, e chiuso con cinque punti. Ma allora tutto quel dolore da dove veniva?
Da dentro, dalla paura della biopsia, dal terrore di dover fare la stessa cosa dopo due mesi, dalla paura di morire. Io voglio vivere. Non voglio stare in ospedale, nessuno dovrebbe starci: c’è odore di disinfettante, penicillina e vomito ovunque, in reparto. Lamenti, singhiozzi soffocati, urla.
La convalescenza fu lunga, il mio corpo sembrava non reagire. A volte si infiammavano per qualche giorno altri linfonodi e io venivo risucchiata all’inferno, sprofondavo vicino a Bruto e a Cassio.
Le giornate passavano lente, in attesa della risposta della biopsia che arrivò dopo 20 giorni. Da Bologna, reparto di malattie rare e infettive. L’avevano mandato lì, il vetrino, con la speranza di capirci qualcosa, di capire perché il mio corpo all’improvviso era come impazzito e stava divorando se stesso.
La risposta diceva che si trattava di una forma rara di tubercolosi.
Forma rara di tubercolosi? Ho fatto decine di lastre, tyn test, analisi. Come può essere? Non ha senso.
Tornai dal chirurgo per il controllo.
“La trovo pallida e sciupata. Deve reagire. Non è detto che vada male. A volte le cose si sistemano”.
Uscii da lì con un proposito. Era ora di uscire, vedere gente, smetterla di parlare di linfonodi, antibiotici, analisi e cortisone. La mattina seguente mi misi la tuta ed uscii a fare una passeggiata. La ferita ancora faceva un po’ male, ma la ignorai. Questo divenne una sorta di rito: ogni mattina, con qualsiasi tempo, uscivo e camminavo per un’ora. “Tu sei pazza, se ti raffreddi poi si gonfiano di nuovo i linfonodi, devi stare attenta, Carla”. Questo mi veniva ripetuto quotidianamente da Luca e mia madre. Io non ascoltavo. Camminavo, camminavo. Iniziavo di nuovo a vivere. Sono passati 15 anni da allora. La cicatrice è sempre lì a ricordarmi che niente è per sempre, meno che mai la vita degli uomini. Ma mi ricorda pure che a volte le battaglie si vincono, con un po’ di fortuna. Alla faccia dei linfonodi!
Non bisogna maledire ciò che viene dal cielo, inclusa la pioggia.
Non conta quello che ti precipita addosso, sia un violento nubifragio o pungente grandine. Non bisogna maledire quello che viene dal cielo. Lo sanno tutti.
Lo sa anche Maria.
Nonostante questo, quel lunedì di maggio si affretta correndo sul marciapiede inghiottito dal traffico, verso un appuntamento per il quale è già in ritardo, imprecando silenziosamente contro i sanpietrini del selciato che le stanno rovinando il tacco 12 delle scarpe nuove, contro gli automobilisti che suonano come pupazzi per bambini sul clacson delle auto in fila (come se servisse a qualcosa), contro la stirpe romana, generata da Enea. Ma perché non sei rimasto a Cartagine?
Qui a Roma la pioggia è una disgrazia.
E’ probabile che in altre parti del mondo venga accolta da uomini e cose come un dono, una benedizione: fa bene ai raccolti, fa bene alle piante, abbassa il livello di inquinamento dell’aria, fa bene alle persone, agli innamorati.
La pioggia a Roma non vuol dire soltanto bagnarsi. Vuol dire caos, rabbia, tombini che esplodono, rigagnoli insidiosi, nuove buche che compaiono sull’asfalto, rabbia, livore, ancora rabbia e lotta.
E’ sempre una lotta.
Ogni volta.
Come pesci buttati in un acquario da buste di plastica piccole e trasparenti dove erano stati acquistati, i cittadini di Roma si buttano sotto l’acqua della capitale con la stessa determinazione e voglia di farcela di quei pesci rossi e viola.
Quando il cielo si squarcia e ci vomita addosso perdiamo tutti il controllo.
Poi quando le ultime gocce si posano a terra, in quel momento in cui non siamo sicuri che la pioggia sia finita ma ne abbiamo la speranza, con le gocce tra i capelli e il malumore ancora addosso, alziamo gli occhi al cielo e la vediamo: la frattura, l’apertura tra i nembi scuri. Il cielo si apre come un sipario lasciandoci ad ammirare l’azzurro forte dell’infinito.
Solo che ancora sta piovendo e Maria non ha l’ombrello. Non vuole dare gli ennesimi cinque euro agli ambulanti che come formiche operose sono comparsi in ogni dove, tanto ormai è completamente fradicia.
In effetti, la pioggia è come il dolore: si cerca in ogni modo di restare “asciutti” ma basta un attimo di distrazione e ti ritrovi completamente bagnata e vinta. Tanto vale arrendersi, allora. Tanto la vita è così.
Maria incede facendosi largo tra la moltitudine di novelli centurioni impegnati ad andare chissà dove.
Lei sa dove deve andare: all’appuntamento col suo avvocato per discutere i dettagli della separazione da Marco, suo marito.
Guarda desolata il cielo; tutta la pioggia che le è caduta addosso bagnandola è una metafora perfetta del dolore che l’ha inghiottita, masticata e poi sputata lacerata e sanguinante da quando Marco le ha detto che non l’ama più e che se ne sarebbe andato di casa.
Come era potuto accadere?
Quando l’aveva conosciuto aveva avuto la certezza che con lui le cose sarebbero andate bene, che l’avrebbe protetta, accompagnata nella vita sostenendola e facendola sentire completa.
Poi, però, si erano mostrati l’uno per l’altra come acqua ed olio: elementi distinti destinati a non fondersi mai e a rimanere entità uniche e sole.
L’ennesimo fallimento, le avrebbe detto sua madre se ancora fosse stata viva.
L’infanzia e l’adolescenza di Maria erano state costellate da una serie di “Te l’avevo detto”, “Secondo me non è la cosa giusta da fare”, “Ne vale davvero la pena?”.
Una perfetta educazione montessoriana, non c’è che dire!
Eppure sua madre l’amava, di questo Maria ragazza non aveva mai dubitato. Il fatto è che Marta, sua madre, era cresciuta in una famiglia rigida ed attenta alla forma. Una di quelle che “non ci si parla e ognuno fa quel che vuole” ma che la domenica si esce tutti insieme perché siamo una famiglia.
In fondo l’aveva amata tanto sua madre. L’affetto profondo che la legava alla sua unica figlia era quasi palpabile quando la guardava destreggiarsi con i compiti di greco o quando la domenica l’accompagnava con il marito alle gare di scherma. Gli occhi di Marta trasudavano amore incondizionato ed estremo in modo direttamente proporzionale alle parole sbagliate che diceva a sua figlia. All’inizio Maria ne soffrì molto, cercando rifugio nell’amore di suo padre. “Tua madre ha un carattere forte e spigoloso, ma ti ama tantissimo, bimba mia”, le diceva il papà quando, esasperata e sconfortata, andava nel suo studio per raccontargli l’ultima lite con la mamma.
Il loro rapporto era stato da manuale: prima simbiotico, poi conflittuale, poi maturo e costruttivo.
Peccato però che quest’ultima fase era durata pochi mesi, perché Marta se l’era portata via un cancro al polmone, lei che non aveva mai fumato e aveva sempre avuto uno stile di vita sano. Nemmeno il tempo di rendersi conto che sua madre se ne stava andando, che non l’avrebbe più vista trafficare in cucina con la moka o osservarla mentre studiava. Non aveva avuto il tempo di dirle che le voleva bene, che era la sua guida, la sua roccia, il suo porto sicuro.
Non abbiamo mai tempo, in effetti. Siamo sempre in credito con la vita, perché lei come una matrigna ce ne sottrae tutte le volte che può.
E questa era una di quelle volte.
Era entrata nella vita di giovane donna senza l’appoggio di una donna matura. Certo, aveva sua nonna, ma per certe cose ci vuole una madre.
Ci fosse stata Marta le avrebbe subito detto, dopo tre o quattro incontri, che Marco non era l’uomo giusto per lei: troppo ombroso, cervellotico, intimista. “Maria, tu hai bisogno di un uomo risolto, senza troppi problemi, che ti completi e ti renda più serena l’esistenza”, questo le avrebbe detto.
Però sua mamma non c’era, e suo papà da quando era rimasto solo si limitava a trascinarsi nella vita terrena senza lasciare troppe tracce della propria esistenza.
Si trova senza ricordarsi come davanti al portone del palazzo signorile dove ha lo studio il suo avvocato. Fa per suonare ma si blocca. Guarda in alto, verso il cielo.
Ora l’azzurro domina spavaldo. Il Ponentino ha fatto il suo lavoro, portandosi via nubi e pioggia.
Si accende una sigaretta e continua a camminare, guardando ogni tanto verso il cielo.
Potrei andare al mare, mezz’ora di auto e sono lì, pensa tra sé.
Si affretta muovendosi agilmente sui sanpietrini, tanto ormai il tacco 12 è inesorabilmente da rifare. Arriva al parcheggio dove tiene la sua auto e vi entra come si trattasse di un macchinario per il teletrasporto. Vorrebbe già essere al mare, sentire la salsedine nel naso e tra i capelli.
Guida come in trance fino ad Ostia. Parcheggia e…finalmente il mare.
Il mare e il vento. Si lascia accarezzare dalla brezza.
Le scompiglia i capelli castani, la costringe a socchiudere gli occhi e a chiudersi il giubbino. Il vento, questo vento meraviglioso che sembra portarsi via tutte le cose pesanti della sua vita: la separazione, la sterilità, la solitudine, l’inadeguatezza.
Tutto si porta via, il Ponentino.
Si accende una sigaretta e poi subito un’altra perché la prima se l’era fumata il vento, suo alleato prezioso ed affidabile.
Come accade per le rocce, la brezza leviga la superficie di Maria, smussa gli spigoli, crea nuove forme del suo essere. Lei si sente bene, sollevata.
Come se di colpo non avesse più problemi.
Respira profondamente e allarga le braccia, chiudendo gli occhi verso il sole.
Ponentino, portati via tutto il marcio della mia vita, sanami e rendimi leggera.
Il vento pare ascoltare le sue preghiere perché quel senso di oppressione che le stringeva le viscere e le toglieva il respiro ora non c’è più.
Rimane così, con le braccia aperte, per prendere tutto il vento che può. Lo sente scorrere sul suo viso, insieme ai granelli di sabbia. Lo sente sui vestiti, sui capelli, sulla sua anima.
“Andrà tutto bene”, le sussurra il Ponentino all’orecchio con la voce della mamma.
“Mi manchi tanto, vorrei averti qui con me. Ti voglio tanto bene, mamma “, dice lei.
E sa che il vento le porterà il suo messaggio.
Mi passo le mani fra i capelli.
Lo faccio ogni volta che sono nervoso o preoccupato. L’ho fatto per anni da studente, quando il prof di biologia guardava con aria seria e minacciosa (a mio avviso) l’elenco degli alunni.
Accidenti, avrei dovuto ripassare la cellula e l’osmosi, mi dicevo mentre il cuore mi batteva all’impazzata.
Ho messo le mani fra i capelli anche quando è arrivata a casa la cartolina per svolgere il servizio militare ed io stavo preparando l’esame di Analisi II. “Cazzo, e adesso come faccio?”, mani nei capelli.
Lo scorrere delle dita fra quella massa scura e spessa che erano i miei capelli mi ha sempre rassicurato, calmato. Forse perché da bambino mia madre, quando non volevo dormire, mi prendeva sulle sue ginocchia, mi cullava e mi accarezzava la testa.
Io, novello guerriero degli anni Settanta, abbandonavo ogni riserva e mi lasciavo sprofondare e risucchiare dal vortice dell’affetto, della carne morbida e calda che mi diceva: “Qui sei al sicuro”.
L’ultima volta che ho messo le mani nei capelli è stata quando mi hanno chiamato dall’ospedale per dirmi che mio padre era morto.
Era notte, chissà perché tante persone ci lasciano nel buio? Ma poi, esiste un buon momento per morire?
La voce dell’infermiere era calma e affettuosa. Messaggero di sventura e di dolore, so che non è colpa tua, ma sprofonda all’inferno!
Mani nei capelli mani nei capelli mani nei capelli.
E ora che faccio?
Non dovevi andartene così, hai sempre sbagliato i tempi, papà. Hai sbagliato i tempi per andare a lavorare, per sposarti, per ammalarti, per morire, persino. Hai sbagliato i tempi degli abbracci, quelli che non mi hai mai dato.
Ora non potrai più rimediare, non potrai più stringermi forte e dirmi che sei fiero di me, non potrai abbracciarmi e, dandomi una pacca sulla spalla, dire: “Bravo, so che hai avuto la promozione!”.
Ora rimane il silenzio, il freddo le lacrime il dolore il vuoto l’assenza. Di te e del padre che avresti potuto essere.
“Papà, corri, vieni a vedere…L’aquilone vola!”. Eravamo in campagna con gli zii, tu te ne stavi disteso all’ombra di un leccio secolare che con le sue braccia protese verso il cielo sembrava accarezzare le nuvole. “Papà, mi ascolti? Vieni!”. Hai aperto leggermente quei tuoi occhi acquosi, guardandomi come si guarda una sveglia che trilla fastidiosamente una domenica mattina di lavoro e mi hai detto: “Chiama tua madre, io ho sonno”.
Chiama tua madre chiama tua madre chiama tua madre chiama tua madre chiama tua madre chiama tua madre.
Mani nei capelli.
Io non voglio essere così, non voglio essere un padre assente, granitico, sfuggente, emotivamente analfabeta. Io sono diverso. Amo i miei figli, io. Li amo, li prendo in braccio, li bacio, li coccolo, li abbraccio.
Si, certo che li abbraccio. Ogni volta che ne ho voglia, ogni volta che loro ne hanno bisogno. Io ci sono!
Domani ti accompagnerò nel tuo ultimo viaggio. Ho scelto una cassa semplice, senza fronzoli, come eri tu. Essenziale. La cerimonia sarà breve, senza musica né fiori in chiesa. “Tutte cazzate!”, ripetevi come un mantra. Avevi le tue idee, le tue certezze e nessuno era in grado di fartele cambiare.
Ecco, ci siamo. Il corteo funebre deve avviarsi. “Signore, mi scusi, tante condoglianze…però dovete partire, ci serve la camera ardente perché c’è stato un incidente. Sa, gente giovane…”.
Non è mai un buon momento per morire.
Mi avvicino a mia madre. Il suo viso è solcato da rughe che, negli ultimi giorni, sono diventate ancora più profonde.
Gli occhi scuri cerchiati dall’inchiostro del dolore, lo sguardo smarrito di una bambina che non sa cosa fare e perché si trovi lì. Mani nei capelli.
In macchina stiamo in silenzio. Che si può dire in situazioni del genere?
Baci, abbracci, pacche sulle spalle. “Ti siamo vicini, vedrai col tempo…ora riposa in pace”. Voci conosciute e non mi ronzano nelle orecchie. Mi guardo intorno: chi sono tutti questi?
Mi osservano mi sorridono mi circondano vogliono toccarmi baciarmi farmi le condoglianze ricordare episodi simpatici vissuti con papà. Via! Andate via, non voglio più nessuno intorno!
Ma sì, sì, certo, murate i mattoni, attaccate la pietra, coprite tutto: la cassa, le lacrime di mamma, il dolore che ci squarcia il petto. Coprite nascondete occultate.
Elaborare il dolore è come inghiottire una pallina. Si fatica a farla passare nell’esofago. Bisogna berci su, deglutire deglutire, aiutarsi con la saliva, con la volontà. Stringere gli occhi e impegnarsi per inghiottire. La pallina poi rimane nella pancia. Il dolore viene mescolato ai succhi gastrici, l’involucro esterno viene ridotto in poltiglia.
Ora i succhi possono digerire l’interno della pallina. Il procedimento non è indolore, a volte si hanno crampi, dolori addominali accompagnati da lacrime e tristezza. Alla fine, però, la pallina viene evacuata. Ci vuole impegno, questo sì. Ci si siede e si spinge. Dolore esci, esci da me. Con un tonfo sordo la pallina cade a terra. Anche questa è fatta!
A volte, però, anche quando la pallina è stata espulsa, ti ritrovi a pensare a degli episodi, cose successe tanto tempo fa, quando di capelli in cui immergere le mani ce n’erano di più, quando pensavi di essere in grado di gestire tutto, di poter affrontare tutto. Ma che è poi questo tutto? Le difficoltà, la fatica, i dispiaceri, il dolore, lo smarrimento? E’ questo?
Mani nei capelli.
Mia moglie entra in camera con passo felpato. Lei mi sta accanto, in modo discreto. Mi avvolge col suo amore in un plaid felpato che è in grado di scaldarmi anche in questo periodo del cavolo.
Mi giro, la guardo e le sorrido. Ha gli occhi stanchi, di chi è stufo di gestire tante cose, troppe.
Devo riprendermi in fretta, devo riavvicinarmi a lei, prima che sia troppo tardi.
Mi siedo sul letto. Sento una morsa allo stomaco: dei cani selvatici mi stanno sbranando le viscere, le lacerano, le tirano di qua e di là senza pietà. Dobbiamo squarciarlo, smembrarlo, farlo soffrire. Ci state riuscendo, cani maledetti!
Torno al lavoro. La signorina Rompietti mi saluta con un accenno di sorriso: “Bentornato, ingegnere. Di nuovo, sentite condoglianze”.
La guardo, socchiudendo gli occhi: non credo che al mondo esista una segretaria più brutta. Ma perché l’ho scelta? Ah, sì, è brava e preparata. Un’aziendalista che non rompe per gli straordinari e i festivi, che non si assenta mai, nemmeno quando sta male. Una sfigata!
L’ufficio mi accoglie col suo odore familiare di parquet lucidato e poltrone di pelle. Quindici anni fa non avrei mai immaginato di poter arrivare fin qui. Quindici anni fa ero un giovane laureato senza una lira ma con tanti sogni e molta determinazione. Questa si è acuita grazie a Emma, mia moglie. All’epoca si era appena laureata anche lei: voleva diventare qualcuno, fare strada. Mi ha sempre spinto a fare di più e meglio. Ce l’abbiamo fatta, tutti e due.
Lavoro sodo, poche ferie, molti sacrifici. L’acquisto di un appartamento piccolissimo ma luminoso, le prime promozioni, i primi viaggi, le prime soddisfazioni.
All’inizio non pensavo ad un figlio. Probabilmente nemmeno Emma lo desiderava. Dico probabilmente perché in realtà non ne abbiamo mai parlato. Eravamo così concentrati su noi stessi che l’idea di essere completamente condizionati da un essere inerme urlante e dispotico non ci ha mai sfiorati.
Poi però sono arrivati Lorenza e Michele.
Forse avere dei figli aiuta a sopportare questo dolore sordo che mi accompagna da giorni. Forse specchiandomi nei loro occhi, mi scrollerò questo torpore e la malinconia che mi avvolge come nebbia lattiginosa nei lunghissimi inverni padani.
Forse.
L’ingegner Ronci bussa al mio ufficio. “Ci sarebbe la pratica Mussi da rivedere. A proposito, come stai?”. “Bene, grazie”. Idiota, ho appena perso mio padre, come vuoi che stia? Sto male male male male. Trascino il mio corpo che sembra pesantissimo tra i meandri del dolore.
E’ una strada tortuosa e labirintica, quella che ti porta dal dolore lancinante di un lutto alla vita “normale”. Ci sono incroci pericolosi, precedenze da dare, bivi a cui devi arrivare. Tu cammini di buona lena, cercando di fare il bravo soldatino. Avanti avanti avanti avanti avanti avanti. Senza esitazione: siamo uomini.
Tu cammini e intanto osservi la strada: è lastricata con gli episodi della tua infanzia. Le partite di pallone con i bambini dell’oratorio, le vacanze al mare con gli zii, le prime gare di scherma. Ah, guarda qui: c’è anche quando ho preso per la prima volta la macchina. Che paura che avevo! Ti avevo chiesto di accompagnarmi a fare quel giro, papà. Per me era una specie di rito di iniziazione. Come un ragazzo Masai, dovevo addentrarmi nella foresta e dimostrare ai vecchi del villaggio che ero in grado di sopravvivere alle difficoltà, che ero un uomo, degno di stare con gli altri guerrieri. La mia foresta, papà, erano i semafori, la partenza in prima senza far spegnere la macchina, il parcheggio tra la miriade di auto parcheggiate male. “Vai da solo, io ho da fare”.
HO DA FARE. Mi rimbomba ancora dentro. Cosa ha mai da fare un padre se non aiutare a crescere il proprio figlio? Te l’avrei dovuto chiedere, quando era ancora possibile una tua risposta.
Ora però tutto questo non ha senso. Gli abbracci mancati, le parole non dette, le gite non fatte, le coccole inesistenti. Tu eri così, profondamente dedito al lavoro per non far mancare nulla a me e alla mamma, ma completamente digiuno di affetti sorrisi parole gentili.
Pensando al tratto di vita che abbiamo condiviso, non riesco a ricordare più di due esperienze condivise con te. Le custodisco dentro di me con cura ed amore.
Ora, dovunque tu sia, sono certo che mi sorridi, sgranando i tuoi occhi acquosi e fai il tifo per me.
Ciao, papà!