Nato a San Benedetto del Tronto il 6-01-1966, sposato con due figli. Lavora come Operatore Sanitario presso una Casa Famiglia. Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari ottenendo un Riconoscimento Speciale alla VII edizione del Premio Letterario in onore di Alda Merini del 2014 di San Benedetto con il racconto ‘Estate 93’. Ha all’attivo altri brevi racconti di cui due in forma di ‘saggio romanzato’ nati dalla sua passione per le Scienze Naturali e dedicati al tema dell’evoluzionismo. Uno è ‘Il discepolo di Darwin’ che compare nel numero 29 della Collana Racconti curata dalla Casa Editrice Pagine.
Planando, impavido fabbricante di
ombrelli ingialliti,
il guerriero issa la sua bandiera sulle
chiome ornamentali,
lauto pasto per la tribù dei
trapani volanti,
barbari urbani, fieri distributori di
rovine tropicali.
Suadenti, arboree odalische ammalianti
attirano i loro carnefici,
pupe intriganti
chiedono ospitalità,
legnose viscere si aprono alla
prole vorace,
prolifica distruttrice di secolarità.
*Nome scientifico del Punteruolo Rosso della palma.
Josh se ne andò dalla città vecchia prima che l’alba permettesse al sole di affacciarsi, quando ancora il calore delle coperte avvolgeva le membra e riscaldava i corpi infreddoliti di chi abitava in quel rustico borgo. La stazione fantasma era quasi deserta. Due mendicanti dormivano stesi su una misera panca di legno dentro una specie di sala d’aspetto piccola, maltenuta e piena di scritte dissacratorie. La quiete era totale e il loro ronfare turbava quel silenzio spettrale.
Erano ubriachi fradici, la puzza che emanavano spinse Josh ad una smorfia, che si tramutò in diniego di fronte a due grosse chiazze di vomito vicine alla ciotola che usavano per la carità. Lì davanti, su un foglio sgualcito e sudicio, a stento si riusciva a leggere “per mangiare”.
Intorno a loro, vuote e sparpagliate, alcune bottiglie di rum e vodka spadroneggiavano sul pavimento, vecchio e làido come quello di una stalla. Josh ne allontanò una con un calcio.
Era il suo disappunto verso le proprie tasche: non aveva più niente, non poteva lasciargli neanche un centesimo. Doveva partire alle 6,30 e il convoglio arrivò in orario pressoché perfetto: salì e prese posto in uno dei tanti scompartimenti liberi. Con lui soltanto un altro passeggero, strabico e vistosamente zoppicante per via di una gamba più corta, che si diresse verso il fondo del vagone. Il capostazione, decrepito e simile ad una statua di cera, alzò la sua paletta alle 6,35.
“In carrozza, si parte”.
Le vetture cominciarono ad avviarsi, rumorose e cigolanti come vecchi macinini.
In quel momento riuscì a salire l’ultimo viandante: una persona trafelata ed ansimante per la corsa fatta e per il peso dei suoi bagagli. “Ma non c’è uno straccio di facchino, qui?”
Era una donna, dai lunghi capelli e dall’aspetto molto fine ed elegante.
Josh, dopo averla notata dal finestrino, le diede una mano a posare le sue cose. “Permette? Mi chiamo Josh”. “Piacere, Rebecca. Posso sedermi qui? Questo treno sembra un obitorio e ho paura di restare sola”. “Ma è ovvio”, rispose Josh.
Il controllore, una figura emaciata, sembrava avesse un teschio al posto del viso, sotto il cappello blu. “Biglietti, prego”.
Alla fermata successiva, il treno rimase in sosta per circa un quarto d’ora.
Salì un altro viaggiatore. Aveva una protesi sul braccio sinistro, segno eloquente dell’amputazione di una mano. Spostava la sua valigia con difficoltà ed il suo incedere lento dava l’idea che si trattasse di un automa. La fronte ampia e le spalle molto larghe fecero pensare a Frankenstein.
Il suo colorito era pallido e smorto. “Sembra una mummia”, pensò Josh interrompendo per un attimo il suo dialogo con Rebecca. “Visto? Pare che sia giunto dall’oltretomba”, le disse stupefatto. Lo vide entrare nello scompartimento accanto, dove era già seduto un altro individuo, dallo sguardo truce e con un vistoso anello a forma di serpente. Uno scorpione tatuato sulla parte destra del collo gli dava un aspetto misterioso ed intrigante. Era pensieroso e guardava nervosamente il suo orologio. Accese freneticamente una sigaretta e la spense a metà. Si alzò di scatto, abbassò il vetro e si affacciò, per scrutare dal finestrino.
Poi lo richiuse e si riaccomodò. Aveva in mano un piccolo coltello a serramanico: cominciò ad intagliare incessantemente un pezzetto di legno, fino ad appuntirlo, rendendolo simile ad una specie di freccia. Se la mise in tasca e ripose il suo coltellino. Aveva l’aria soddisfatta, come se quell’oggetto lo avesse improvvisamente calmato: quel suo piccolo diletto lo tranquillizzò. Accese un’altra sigaretta, che fumò più rilassato, mentre lo sguardo vitreo e perso dell’uomo seduto lì vicino continuava a fissare il vuoto, assente. Era immobile: sembrava imbalsamato. Il macchinista udì il fischietto che dava il segnale di partenza.
La paletta verde divenne presto un punto lontano. “La prossima è tra un’ora” disse Josh. Chiese a Rebecca di controllare sul libretto degli orari.
“Tra un’ora e mezza per l’esattezza, transiteremo anche in aperta campagna, intorno a colline che ricordano il Grand Canyon” precisò lei.
“Interessante, sei molto informata”. “Non è la prima volta che percorro questo tratto, è una zona conosciuta perché da quelle parti si svolgono degli strani riti”, ribattè puntigliosa.
“La ciliegina sulla torta”, pensò laconicamente Josh.
Rebecca manifestò il desiderio di assopirsi con uno sbadiglio intenso e prolungato.
Era stanca ed il lasso di tempo che la separava dalla stazione seguente era la giusta occasione per approfittarne. “Scusa Josh, ora ho sonno. Vorrei provare a dormire un po’, se non ti dispiace”.
“Ci mancherebbe, anzi, scusa se ti ho annoiato con tutte quelle chiacchiere”.
“Non preoccuparti, figurati”. “Ok, buon riposo”.
Josh era stufo di stare seduto. “Devo sgranchirmi le gambe”, pensò.
Uscì dallo scompartimento ed arrivò davanti alla toilette. Era chiusa a chiave.
“E’ occupata”, disse tra sè e sè. Tornò sui suoi passi, senza rientrare nello scompartimento, dove Rebecca dormiva già profondamente: “Ha un viso stupendo, chissà da dove viene, la sua bellezza è davvero incredibile, veramente stupefacente. E’ angelica” pensò contemplandola. Aprì un finestrino, convinto che fosse quello il momento giusto per prendere una boccata d’aria. Chiuse gli occhi ed immaginò l’attimo in cui lei si sarebbe svegliata.
“Mi piace, ci proverò”, si disse compiacendosi, ma dopo qualche secondo un odore sgradevole e ripugnante lo distolse, attirando la sua attenzione: proveniva dalla toilette, ancora chiusa, dalla quale non si udiva alcun rumore.
Josh, incuriosito, si diresse verso quella direzione e appena si trovò di fronte alla porta ebbe una sgradevole sorpresa, che gli provocò un senso di profondo disgusto: una scia di sangue fuoriusciva dall’interno, copiosa e densa come una chiazza d’olio. La bassa temperatura la rendeva poco fluida, ma era evidente che potesse riguardare qualcuno che giaceva lì dentro da diverso tempo, da qualche ora o, forse, da giorni. Ebbe un gesto di repulsione, si tappò il naso e si allontanò di qualche metro. Poi si riavvicinò, provando a bussare ripetutamente: non avendo alcun tipo di risposta, pensò bene di avvisare qualcuno per informarlo di quella sua spiacevole scoperta. “Rebecca sta dormendo, non voglio svegliarla. Forse non è il caso di avvisare gli altri passeggeri: che tipi strani...
Cercherò un controllore oppure alla prossima fermata mi rivolgerò a qualche agente di polizia”.
Il dubbio lo stava attanagliando e Josh decise di accantonare quel suo tarlo mentale dando una rapida occhiata all’interno della sua valigia. Scrutò in successione i cd che aveva con sé: “Badmotorfinger”, pensò. Era un album dei Soundgarden. Tirò fuori il suo walkman e se lo infilò velocemente in testa, premurandosi di non provocare rumori che potessero turbare il sonno di Rebecca. Azionò il tasto play e, cercando di non svegliarla, ascoltò ad occhi chiusi, seduto di fronte a lei. ‘Rusty Cage’, ‘Outshined’ e ‘Slaves & Bulldozers’ fino al feedback lancinante che lo condusse a ‘Jesus Christ Pose’, che incalzava prorompente e furioso.
“Che meraviglia”, pensò radioso. Si soffermò su quel brano, ascoltandolo più volte.
Le contorsioni sonore che trasudavano da quella traccia lo ammaliavano, tanto da farlo sembrare in trance. Un’estasi di 5 minuti e 51 secondi che rappresentava un sottofondo perfetto per l’atmosfera all’interno di quel vagone.
Dopo aver premuto lo stop, era già pronto per un altro ascolto di quella vertigine ritmica fatta di distorsioni e urla disumane, quando, dopo aver sollevato per un attimo lo sguardo, riuscì a scorgere per un istante una strano figuro, un individuo di passaggio che attirò la sua attenzione a tal punto da fargli togliere di scatto la cuffia e spingerlo a spegnere il walkman, interrompendo di colpo il suo visibilio musicale. Ripose tutto nella valigia e uscì dallo scompartimento per vedere meglio di chi si trattava. Quel personaggio dalle losche apparenze rientrò nel posto da cui era uscito per un momento: uno scompartimento con le tendine abbassate del quale Josh non aveva ancora notato l’interno, essendo chiuso e al riparo da qualsiasi raggio di luce. Aspettò che ci tornasse dentro, poi provò a bussare. “Scusi, posso entrare?”.
”Certo, certo, tanto ormai sono sveglio, già che c’è apra pure le tendine, così avremo un po’ di luce”. ”Non intendevo disturbarla, posso andarmene subito..”
“No, no, stia tranquillo, anzi, si accomodi pure e scusi se non mi sono ancora presentato”.
Era un uomo di mezza età, con i capelli brizzolati e gli occhi celati da un paio di occhiali con due lenti nere molto spesse, a fondo di bicchiere, che coprivano per metà una specie di voglia, un enorme neo di colore verdastro, sopra lo zigomo sinistro.
Alla sua destra, poggiato sul sedile, un grande libro con un titolo a caratteri cubitali, una parola che Josh in quel momento non comprese: “Acanthosoma”.
“Mi chiamo Vincent Ellington”. “Piacere Josh”.
“Vede, Acanthosoma è un genere di insetti in cui sono stati osservati casi di cannibalismo. Appartengono alla famiglia Acanthosomatidae e sono molto diffusi in Africa e in Australia”. Josh annuì silenziosamente con il capo. Il sig. Ellington rimase muto per qualche istante.
“Continui pure”, disse Josh facendogli un cenno con la mano.
L’uomo brizzolato si incupì e richiuse improvvisamente il suo libro.
Era stizzito e visibilmente alterato. Qualcosa lo turbava. Corrugò la fronte, si tolse la giacca e la posò sul sedile, alla sua sinistra. “Tutto bene?” chiese Josh.
“Ehm, certo, tutto ok”. Riprese a parlare.
“L’entomologia è stata la mia passione… ma anche il mio martirio…la mia delizia e la mia croce”. Fece un’altra pausa. Poi continuò. “Insegnavo in una scuola elementare e volevo che i miei alunni avessero una predisposizione per le scienze naturali…una inclinazione particolare per gli insetti, i loro ordini e le relative sottoclassi. Le mie lezioni erano impostate unicamente in quella direzione, parlavo solo di Pterigoti e Apterigoti, di Lepidotteri e Ditteri, di Crisopidi e Formicaleoni, di tutto quello, cioè, che da vita a questo affascinante mondo…il mio magico mondo…”. Si interruppe, poi proseguì. “. Esigevo il massimo silenzio, la mia severità non tollerava la minima disattenzione. Qualsiasi distrazione, qualsiasi parola fuori posto comportava punizioni esemplari. Pretendevo un rispetto totale.
Trasformai i miei scolari in discepoli per raggiungere la mia meta e arrivare il mio obiettivo: l’unico scopo della mia vita, quello di diventare il più grande studioso del pianeta terra ed entrare nel guinness dei primati per il più alto numero di insetti esaminati”. Rimase senza parole per qualche secondo, fissò all’esterno del finestrino, guardando verso il cielo.
“Stravagante, non c’è dubbio”, pensò Josh tra sè e sé.
Ellington andò avanti. “Niente poteva fermarmi e nulla doveva ostacolarmi, non avevo scrupoli ed ero pronto ad utilizzare qualsiasi mezzo per riuscire nel mio intento”. Troncò per un momento il suo discorso, indirizzò ancora il suo sguardo verso l’orizzonte, con gli occhi arrossati a rifissare il cielo, quasi a far scendere una lacrima da quel suo volto stralunato e scuro. Seguitò. “Il mio motto era: fierezza e disciplina. I miei allievi dovevano recarsi tutti i pomeriggi in boschi e prati per procurarmi più varietà di forme possibili. La rarità degli esemplari otteneva una valutazione migliore e maggiore era il numero degli insetti trovati più alto era il premio: bei voti e lodi sul registro.
Chi non raggiungeva una varietà sufficiente di specie e un numero minimo di elementi, veniva umiliato e castigato. Gli ponevo la domanda di rito: “Scegliete le forti nerbate del grosso compasso di legno o preferite rimanere inginocchiati sul tappeto di sassi per tutta la lezione?
Dovevo trasformarli in seguaci modello ed adepti efficienti, a costo di vessazioni fisiche.”.
“Davvero ardìto, sig. Ellington”, sentenziò Josh, assecondandolo con aria di finta ammirazione. “Intendevo renderli dei sudditi perfetti. Ormai li avevo in pugno, tutto filava liscio. Finchè un giorno…un maledetto giorno…il mio progetto andò in fumo. Mi accusarono di plagio. Fui allontanato dall’istituto e rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove rimasi per cinque anni, cinque lunghissimi anni che bloccarono la mia attività. Ma appena uscito portai avanti i miei studi e continuai le ricerche per alimentare la mia vendetta e non tradire la mia vocazione”.
“Un impulso innato”, osservò Josh, arguto.
“Tutto cominciò quando ero ancora nel grembo di mia madre. Al quinto mese di gravidanza fu assalita da uno sciame di cavallette.
Cadde all’indietro, battè la testa e perse conoscenza.
Il forte trauma cranico le provocò una stato di coma profondo e irreversibile.
Tenendola in vita artificialmente, i medici si prodigarono per salvare il feto e riuscirono a farmi nascere. Un parto difficile, ma andò tutto per il meglio. Fin da piccolo mostrai una passione smodata ed istintiva per la zoologia, con un attaccamento morboso per gli insetti e i loro simili. Questa macchia che contorna il mio occhio sinistro, ha lo stesso colore e la forma della Tettigonia Viridissima, una locusta dalle antenne filiformi appartenente all’ordine degli Ortotteri: un editto divino, il segno del destino, l’impronta della mia idolatria. La missione da compiere, per l’eternità”. “Veramente encomiabile”, affermò Josh tra incredulità e commiserazione.
“E’ stata una discussione interessante, ma ora devo salutarla, torno al mio scompartimento”, gli fece tagliando corto. “Arrivederci, sentirà ancora parlare di me”, rispose convinto Vincent Ellington.
Ripassò davanti alla toilette e vide la porta socchiusa. Avanzò guardingo per cercare di scrutare all’interno.
La aprì e rimase basìto di fronte ad un grosso pezzo di carne di manzo poggiato sopra al water. Era la soluzione del mistero. ”Ecco da dove proveniva quel fiotto di sangue”, pensò interrogandosi su chi poteva aver messo lì quel nauseabondo quarto di bue putrefatto. “Ed io che volevo avvisare la polizia. Forse sarebbe meglio allertare il personale di qualche struttura per disagiati mentali”, disse tra sè e sè rassegnato.
Rientrò nello scompartimento e vide Rebecca stiracchiarsi. “Dormito bene?” le chiese.
“Si, è stato proprio rigenerante”. Josh le raccontò quello che aveva visto nel bagno e lei scoppiò in una fragorosa risata seguita da un’esternazione di stupore: “Non è possibile”, esclamò sgranando gli occhi. E lui di rimando: “Ma sei sicura che la prossima fermata non sia un manicomio?”, domandò meravigliato. “Quello che c’è là dentro è sicuramente opera di un pazzo”, continuò. “Non ho mai visto niente di simile”. Si avvicinava la sosta, il treno cominciò a rallentare fino a fermarsi, in prossimità del sottopassaggio. Josh chiese un panino e una birra a un venditore ambulante salito sul vagone. Era molto basso, sembrava il nanetto deforme di un circo, un vero e proprio freak.
Gli mancavano gli incisivi davanti, era completamente calvo e polidattile: aveva dodici dita. Non riusciva a pronunciare bene tutte le parole e Josh capì a fatica quale fosse la cifra da pagare: “E’ anche dislessico”, pensò. Comprò qualcosa anche Rebecca. “Una lattina di Coca per favore”. Mentre gliela dava, il tipo la fece cadere, ammaccandola vicino all’apertura, evidenziando anche una goffaggine che rendeva lecito chiedersi come facesse a svolgere quell’attività. Si guardava intorno sospettoso e, quasi minaccioso, diede un occhiataccia a Josh come a lanciargli un guanto di sfida. Non scese e quando il treno ripartì, lui rimase in piedi, andando su e giù per cercare qualche altro cliente occasionale. “Ma una persona normale non c’è qui dentro?” borbottò Rebecca. “Guarda cosa sta facendo!” le rispose Josh indicando il venditore che stava giocherellando con un foglio di carta stropicciato. Lo buttava per terra e poi gli dava calci come fosse una palla, mimando anche dei dribbling e delle finte. Si girò verso di loro con la faccia di chi si chiede il motivo per cui lo stiano guardando. Continuò in quello svago, in attesa di vendere qualcos’altro.
“Tra tre quarti d’ora ci sarà un’altra fermata”, fece Josh a Rebecca tirando fuori un volumetto di circa cento pagine. “Mi metto a leggere”. “Io invece provo a risolvere qualche rebus”, replicò lei prendendo dalla borsetta un settimanale di enigmistica. Erano le 10,15. Josh sfogliò quattro pagine poi posò il libro. “Dopo la sosta delle 11 arriverò a destinazione, dove prenderò il volo per Melbourne”, disse.
“Anch’io vado lì” controbattè Rebecca. “Che coincidenza”, replicò lui senza nascondere la sua felicità. “Viaggerò con lei anche in aereo”, pensò deliziato.
“Stazione di Rostock”. L’altoparlante annunciò che un altro treno sarebbe arrivato sul binario vicino con circa un’ora di ritardo. “Siamo fortunati, il nostro è puntuale come un orologio svizzero”, disse Rebecca. “Già, non ci possiamo lamentare”, confermò Josh. In quel preciso momento salirono sul vagone due persone, un’anziana coppia intorno ai settant’anni: lui si reggeva con un bastone, aveva il braccio destro paralizzato e un occhio di vetro; lei, visibilmente tremante, parlava da sola ed era scalza, con le scarpe in mano.
Mandava epiteti al marito, denigrandolo pronunciando frasi senza senso. “Sembrano dei derelitti”, disse Josh. “Ma perché salgono tutti qui?” pensò tra sè e sè Rebecca. Prima che il treno ripartisse, salì velocemente un uomo, robusto, tarchiato e con la barba incolta, che entrò furtivamente in uno scompartimento vuoto, dove si mise a sedere ridacchiando ad alta voce. Il suo abbigliamento era eccentrico: sandali rossi, calzini verdi con dei bermuda marroni che gli stavano molto larghi, Gli calavano, rendendo visibili gli slip. Aveva una felpa gialla, consumata e sporca. In testa un cappello grigio, con la visiera bucata che risaltava sopra la sua chioma folta e spettinata. “Si è fatto lo shampoo in un frantoio”, rimarcò Josh evidenziando i suoi capelli unti. “Sembra un clochard”, commentò Rebecca. L’uomo si alzò e si avvicinò al venditore ambulante: “Dammi una gassosa”. Il venditore gliela porse. L’uomo la stappò e gliela versò tutta sulla testa. “Questa è per te, sgorbio”, gli disse con odio, buttando la bottiglia vuota per terra. Poi rientrò nello scompartimento e si rimise seduto, continuando a ridere. Poi accese un sigaro. “Un tipo deciso”, disse ironicamente Josh.
“Dopo circa dieci minuti, l’uomo si rialzò e si diresse verso la coppia salita poco prima. Spense il sigaro sulla guancia del vecchio che urlò malamente, emettendo dei suoni indistinti: in quel momento si capì che era muto. Poi, rivolgendosi alla donna, disse: “Vecchia bavosa, mettiti le scarpe”. Lei obbedì, spaventata, mentre farfugliava, incomprensibile. “Taci”, disse lui ammonendola. Poi tornò di nuovo nel suo scompartimento. Si stese, con i piedi appoggiati su un bracciolo. “E’ sicuramente uno psicopatico”, disse Rebecca, lasciando intravedere nel suo sguardo una certa preoccupazione. “Stai tranquilla, mi sembra solo un egocentrico esibizionista che vuole mettersi in mostra”. L’uomo si mise a canticchiare, con voce stridula, storpiando un famoso motivetto con stonature e rime sbagliate. Poi smise e riaccese il sigaro. Non si alzò più, rimanendo in silenzio, assorto nelle sue ossessioni.
Mancava poco alla fermata dove Josh e Rebecca sarebbero scesi. Cominciarono a preparare la loro roba. “Non ne posso più di questo vagone, non vedo l’ora di arrivare”, disse Rebecca esasperata. “Ormai ci siamo”, le fece Josh rincuorandola.
Subito dopo si udì un tonfo, fuori dallo scompartimento: era il venditore ambulante, caduto nel tentativo di raccogliere un pacco che conteneva dei sacchetti di arachidi da smerciare. Si rialzò subito, lanciando un’altra brutta occhiata a Josh che lo stava fissando. Il treno cominciò a rallentare. Passò qualche secondo:
“Andiamo verso la portiera, così non perdiamo tempo”, disse Josh.
“Finalmente, non mi sembra vero”, ribattè Rebecca sollevata. Il rumore stridente dei freni li accompagnò ancora per qualche istante. “Eccoci”, pensò Rebecca. Josh la prese per mano e l’aiutò a scendere. Poi toccò alle valigie. Il convoglio ripartì. “L’aeroporto è a pochi minuti da qui”, fece Josh. “Avviamoci”, esclamò Rebecca. Si allontanarono rapidamente ed entrarono in un bar lì vicino. Ordinarono due caffè. Josh guardò l’orologio. “Fra un paio d’ore saremo già in volo, speriamo non ci sia lo stesso tipo di soggetti”. “Sarebbe un incubo”, mugugnò con sarcasmo Rebecca .
Josh si mise le mani in tasca, poi le disse di non avere niente per pagare quello che avevano chiesto. “Non importa, offro io” fece Rebecca, sorridendogli. Lui la guardò negli occhi, avvicinò lo sguardo e la baciò sulla bocca, mentre il barista poggiava lo scontrino sul bancone. Uscirono abbracciati e si coccolarono su una panchina. “Se non avessi preso quel treno, non ti avrei incontrata”, le disse accarezzandole i capelli: “E’ stato il più bel viaggio della mia vita”.
“Alziamoci Josh, l’aereo ci aspetta”.
F I N E
Pat era molto stanco. Dopo i soliti bagordi notturni, il sonno lo aveva assalito verso le tre e tre quarti, appena qualche minuto dopo il suo rientro a casa. Giusto il tempo di accendere il televisore con il telecomando, ormai ridotto ad un ammasso di gomma fradicia rattoppata con il nastro isolante: i “titoli del giorno dopo” si susseguivano dai vari quotidiani in un silenzio quasi totale davanti al suo corpo stordito e sognante steso sul letto della stanza. La birra ingurgitata tramava vendetta, la quale non tardò molto a consumarsi: verso le sei fu svegliato da un’arsura tremenda e, senza neanche infilarsi le ciabatte, si diresse, deciso, ad afferrare una bottiglia d’acqua di plastica che stava di fianco al televisore, ancora acceso. Lo spense, dopo aver avuto il tempo per un gesto di stizza di fronte alla faccia di Fini che ghignava e, gradasso, infondeva inquietudine.
Poi afferrò maldestramente e con avidità la bottiglia, facendo cadere in terra il tappo che rotolò in un angolo vicino allo stereo: bevve freneticamente, tanto che l’acqua gli fuoriuscì dalla bocca fino a bagnare il pavimento. Si distese velocemente sul letto, scorgendo dalla tenda della finestra una semioscurità che diveniva giorno, segno dell’alba che faceva capolino accompagnata dai versi di qualche strano uccello che stava nei pressi del giardino sottostante. Si riaddormentò, frastornato da un forte ronzìo: sembrava che gli fossero caduti due massi in testa. Erano le sei e venti, i netturbini del comune già da tempo avevano iniziato a svuotare i bidoni della spazzatura dentro il camion che, rumoroso, transitava in quel momento di fronte casa sua. Non se ne accorse.
Si svegliò intorno alle dieci e trenta. Mentre si stirava ancora sdraiato, avvistò, in basso vicino alle scarpe, un oggetto scuro a lui familiare: era il telecomando, ancora in terra dopo l’ennesimo tonfo notturno. Per sua fortuna, quello strato di gomma semidistrutta, lo aveva protetto anche quella notte. Alle undici in punto si alzò, mentre all’arsura del suo corpo si era aggiunta quella della sua stanza, da dove si poteva scorgere un sole a quell’ora altissimo e cocente. D’altronde, in quella tarda mattina di fine giugno, era un azzardo chiedere di meglio, dato che in quel periodo la temperatura si era assestata su livelli da forno elettrico e da molti giorni non cadeva una goccia di pioggia. Fu in quel momento che Pat sembrò esternare il suo desiderio più grande: che giungessero in fretta le ombre della sera e che ritornasse al più presto il buio. Aveva un gran mal di testa.
Dopo aver bevuto molto velocemente un tè al limone quasi freddo con qualche biscotto, si recò in bagno; il ronzìo ancora lo tormentava e l’emicrania non accennava a diminuire. “Adesso vado al mare e mi stendo sotto una palma, poi faccio il bagno. Forse mi passa”, pensò. Era ancora in mutande e, dopo essersi sciacquato velocemente la faccia con l’acqua fredda del lavandino, tornò nella sua stanza. Accese lo stereo e mentre la musica andava a volume sparato si infilò il costume, prese l’asciugamano del mare e lo scrollò dal balcone per toglierci qualche rimasuglio di sabbia del giorno prima. Lo ripiegò. Il mal di testa continuava a non dargli tregua e subito dopo aver spento il suo impianto hi-fi, era finalmente pronto per recarsi nella sua piccola oasi marina che lo aspettava, come tutti i giorni, vicinissima a casa sua. A mezzogiorno in punto varcò la soglia dell’entrata e chiuse la porta a chiave. Scese velocemente le scale ed inforcò la sua mountain-bike: direzione spiaggia libera.
La gente raccoglieva la propria roba e se ne andava, dopo aver passato tutta la mattina a fare
da spola tra il bagnasciuga e l’ombrellone. Mentre percorreva la scalinata che dalla balaustra
portava alla passerella, Pat sbirciò tra le palme per cercare di scorgere Laura:
“Diamine, ho fatto tardi, se ne è già andata”, esclamò fra sè e sè battendosi la mano sulla coscia in segno di disappunto. Intorno a quell’ora lei aveva il pullman per tornare a casa, al paese.
“Vabbè, domani verrò prima”, pensò, mentre posava l’asciugamano e le ciabatte da mare sulla sabbia, nella zona d’ombra della solita palma libera, vicina, come tutte le altre, al torrentello che sfocia in quel tratto di spiaggia e ormai divenuto una vera e propria fogna, una discarica a cielo aperto. L’acqua del mare sembrava un tavolo da biliardo, non tirava un filo d’aria e l’afa stava facendo man bassa, non lasciava scampo al minimo tentativo di ristoro.
Per questo, a meno che non si detenesse il primato mondiale di velocità sui cento metri piani, spostarsi fino alla riva costituiva un’impresa, poiché era come camminare sui carboni ardenti ed era impossibile farlo a piedi nudi senza correre il rischio di forti ustioni. La sabbia rovente era implacabile e Pat giunse a riva con le ciabatte di gomma che si tolse solo dopo aver avuto la certezza di posare i piedi sulla parte fresca a ridosso dell’acqua. Fissò la scogliera e ripensò a come Laura lo accoglieva con entusiasmo ogni volta che lo vedeva arrivare in spiaggia. Rimase assorto per qualche istante e poi, dopo aver constatato che lì nei paraggi non c’era nessuno che conosceva, tornò all’asciugamano e si stese sotto la palma.
Era sua abitudine restare in quel posto per non più di novanta minuti e quindi, scoccate le tredici e trenta, decise che era giunto il momento di risalire in bici e posare l’asciugamano sul manubrio:
“Vado via”.
Come gli accadeva tutte le settimane per due giorni consecutivi, quel pomeriggio aveva il turno dalle tre alle sette alla mensa dell’ospedale. Verso le due e un quarto salì velocemente in soffitta con tutto l’occorrente di cui aveva bisogno per preparare, il più in fretta possibile, il suo digestivo preferito. “In questo dannato paese non si può fare mai niente in santa pace, bisogna nascondersi”, pensò con rabbia mentre tagliava la cartina dopo averla tagliata con la saliva. La posò su un ripiano stracolmo di libri vecchi, mangime e polvere. I suoi Lizard lo guardavano incuriositi. Tutto fu pronto in pochi minuti.
“E’ venuta uno schifo, ma l’importante è che faccia il suo dovere”.
La maneggiò con cura per non farla rovinare o spezzare con qualche brusco movimento. “Mi servirà dopo”. Riscese e si versò velocemente del caffè in una tazzina. Lo bevve ed uscì: con la bici arrivò alla bolgia dantesca in un battibaleno.
Entrò nello spogliatoio, si cambiò e poi iniziò a confezionare i pasti.
Doveva consegnare la cena ai pochi degenti di due piccoli nosocomi in collina, a pochi chilometri dalla sua città: il primo era una specie di lager per anziani gestito da una vecchia suora acida e repellente, l’altro un ex convento in cui a volte capitava di incontrare un’infermiera non più tanto giovane, ma con lo stesso fascino di Karyn Schubert. Dopo aver introdotto i cibi caldi confezionati dentro i termos, si diresse alla macchina furgonata della ditta: li caricò nel portabagagli, mise in moto, si accertò di non aver dimenticato il suo prezioso dessert e partì. Dopo circa tre quarti d’ora, intraprese la via del ritorno sulle strade tortuose e piene di curve a gomito. “Ci siamo, il ponte si avvicina”. Aprì lo sportellino posaoggetti: lei era dentro un cumulo di bicchieri di plastica, pronta da degustare.
Una lingua trasversale l’accompagnò impaziente nel posto atteso da cinquantacinque minuti. La accese e in un alone di fumo intravide la nazionale: “L’odore di smog non da tregua, è una cappa opprimente,
ma qui dentro un gradito sapore rischiara la mente”. Sparì nel traffico tra code interminabili, semafori e grossi bestioni a otto ruote: l’orologio della torre faceva le sei e trentacinque.
Tornò alla base, mise i contenitori vuoti al loro posto e aprì il cassetto della scrivania per sistemarci dentro le bolle di consegna firmate. Aveva praticamente finito, ma mentre si apprestava a segnare con la penna l’ora di uscita sul registro delle presenze, avvenne quello che fino ad un secondo prima sperava di essere riuscito ad evitare: gli chiesero di recarsi a gettare i sacchi dell’immondizia nel vascone verde dei rifiuti. Erano grossi ed alcuni di essi molto pesanti. Ci andò, nonostante le sue gambe si fossero trasformate in due macigni, vista la lentezza con cui le trascinava.
Quando risalì gli rimase solo il tempo di cambiarsi e andarsene.
Mentre si allontanava, udì gli schiamazzi delle sue colleghe e dei cuochi che ne avevano ancora per un po’. “C’è un indiano qui in cucina, lancia un urlo da Cheyenne”.
A casa si lavò in fretta e andò a fare un giro.
Gli pareva di camminare sopra un tappeto di nuvole:
si avviò verso lo stradone, lì c’era sicuramente qualcuno, era il punto di ritrovo per il consueto e robotico andirivieni quotidiano. Ma il momento più bello arrivava quando se ne andavano tutti
e quel posto si faceva deserto. Pat adorava lo squallore: i cinema vuoti, le persiane vecchie, i ruderi disabitati. Lui e gli altri si sarebbero rivisti dopocena. Andò all’appuntamento: non passò molto da quando il sole si tolse dai piedi. A notte fonda raggiunsero i lettini e scelsero una zona lontana dal marciapiede. Il rito iniziò: i tizzoni ardenti vagavano come lucciole tra le mani dei corpi sistemati a cerchio. Rimasero un bel po’ a sghignazzare e a contare le luci visibili a mare aperto, lontanissime da loro. Poi se ne andarono. Mentre risalivano passarono vicino agli arnesi da cucina e al sacco a pelo del viaggiatore solitario: insieme alle immancabili bottiglie di vino, era quella tutta la roba che portava con sé. Appena rientrò, Pat cercò invano di sfuggire alle morse della sua fame-killer.
Poi stramazzò sul letto. Rimase immobile: dormiva già profondamente.
Alex aveva sul viso i segni dell’esperienza. Era abituato a spostarsi continuamente, a non avere una fissa dimora, a dormire all’addiaccio senza temere gli umori del tempo, spesso tiranno per quelli come lui. Il suo sguardo truce e la sua pelle grinza non gli davano un aspetto invitante: la barba incolta, i capelli lunghi e quel suo essere solitario gli conferivano i connotati di un uomo schivo, scontroso e minaccioso: sembrava inavvicinabile. Il passare dei giorni stabilì, invece, che quella era soltanto un’impressione. Gli piaceva dialogare, raccontare la sua storia tra una sortita in acqua e un sorso di necessità carpìta alla sua inseparabile amica di vetro: si ubriacava sotto il sole cocente che faceva di quel tratto di costa un piccolo deserto del Sahara. Si spostava di palma in palma, chiacchierava amichevolmente, come se volesse dare spazio a tutti coloro che lo vedevano come un qualcosa da evitare, da rifuggire.
Quando si inginocchiava agli angoli delle vie del centro per chiedere l’elemosina, assomigliava a Gesù Cristo: le braccia aperte e rivolte verso l’alto facevano presa sulla gente, quel senso di mistico lo tramutava in un santone, in un profeta venuto da lontano. Aveva un carisma che incuteva rispetto persino ad un ateo sfegatato come Pat. Gli spiccioli che i passanti gli lasciavano dentro la sua scatola di cartone, gli davano la possibilità di comprarsi quel po’ di cose, quel minimo che gli consentiva di sbarcare quotidianamente il lunario. In spiaggia, la sua, era ormai una figura abituale, aveva tutte le carte in regola per diventare un classico in quel pezzo di esotico. Una mattina parlò a lungo con Pat, gli raccontò del suo lavoro nel suo paese sdoppiatosi dopo il fallimento di un regime andato a male, della sua fede in Dio. Gli mostrò un’agendina piena zeppa di immagini sacre e di santini raffiguranti la Madonna, alla quale sembrava molto devoto. Tra una pagina e l’altra c’erano scritte a penna le frasi ed i saluti di chi lo aveva incontrato fino ad allora in chissà quante parti del mondo.
Gliela porse: “Un saluto al viaggiatore solitario”, annotò Pat dopo averci pensato un po’.
Era sicuro di avere scritto una stronzata. Ma Alex l’apprezzò molto e lo ringraziò, sorridendo. Il giorno dopo partì, per continuare a girovagare in altri posti, nella sua personale ed incondizionata epopea di libertà. Si salutarono: forse definitivamente.
Il triathlon che i suoi amici si dilettavano a disputare, di norma doveva coincidere con la domenica del grande mondiale di ciclismo, solitamente l’ultima di agosto o la prima di settembre, la cui attesa era
sempre più crescente, quasi spasmodica, mano a mano che si avvicinava.
La passione per le due ruote li aveva sempre accomunati e quando Pat usciva per la consueta sgambata, si divertiva ad percorrere le mitiche salite che i suoi vecchi maestri conoscevano a menadito: il Muro della Morte, il Colonnellone, il Muro sterrato del Cimitero o la terribile Fornace.
Fu per lui un fausto giorno, quando riuscì a staccarli tutti sul leggendario Muro di Marano, stabilendo anche il record della scalata. Ma quando si svegliò, quella mattina, c’erano già i segni della tempesta:
mare in burrasca, vento forte, pioggia battente ed un cielo nero che sembrava toccasse la strada. Si vestì in fretta e schizzò con la sua bicicletta, sotto il diluvio, fino allo chalet, classico punto di ritrovo per quelli che facevano la gara delle tre specialità.
Capì subito che era stata annullata vedendo le grosse onde infrangersi quasi fino alle sdraie: in quelle condizioni sarebbe stata una follia buttarsi in acqua perché si correva il rischio di sfracellarsi sugli scogli. Senza la prova di nuoto, il triathlon non si poteva effettuare e quindi saltò tutto. Pat non avrebbe partecipato lo stesso, poiché non sapeva nuotare,
lo faceva troppo lentamente. Rimontò sulla sella e sotto il temporale raggiunse l’uscio di casa. Dal corridoio intravide la luce bluastra della televisione riflessa sui vetri della porta. L’evento era già cominciato. Non succedeva ancora niente, i cronisti avevano poco da commentare: la corsa procedeva ermetica, senza scossoni, non era ancora tempo per accendere la miccia che gli permettesse di esplodere, per farla decollare: il bello doveva ancora venire, tutto era ancora da godere, tutto era ancora da giocare.
Pioveva anche a Oslo. L’atmosfera era terribile, il circuito sembrava una pista ghiacciata da pattinaggio, ad ogni curva i ciclisti facevano fatica a mantenere l’equilibrio e rischiavano di cadere. Era ancora presto, anche se alle fasi cruciali non mancava poi così tanto. Appena ebbe finito di ingurgitare il suo pranzo, Pat uscì per continuare a vedere la corsa a casa di una amico, in un appartamento all’interno di un palazzo davanti alla stazione. Erano seduti su un comodo divano,
di fronte alla tv: di certo non si sa in cambio di cosa avrebbero voluto essere al posto di quegli individui ricurvi su di una bicicletta, intirizziti dal freddo. Si sapeva che Gianni Bugno odiava il cattivo tempo, non riusciva ad esprimersi in simili inferni: perciò si manteneva in coda al gruppo, la paura di rompersi l’osso del collo gli si leggeva ben stampata sul viso, pietrificato sotto i capelli fradici d’acqua: una smorfia di rabbia e fatica, la delusione di chi sa già come andrà a finire, un gigante divenuto gnomo che in quel momento rispondeva al solo desiderio che gli frullava nel cervello: quello di dire stop.
Proprio nel suo giorno più bello, che poteva definitivamente consacrarlo: se avesse vinto, sarebbe stato l’unico uomo ad aggiudicarsi il titolo per tre volte consecutive. Ben presto accostò lentamente verso il bordo della strada e abbandonò il suo mezzo, ritirandosi. Pat ed il suo amico lo ricoprirono di insulti. La loro derisione nei suoi confronti rasentava il cinismo più totale.
Dopotutto, era il campione in carica. Quella giornata stava ormai giungendo ad un precoce tramonto,
una frettolosa oscurità già avvolgeva la luce dei lampioni: del nuovo campione si seppe solo che aveva lo stesso cognome di un celebre trombettista e di un famoso astronauta. Era uno yankee, molto giovane e dal fisico prestante. Era uno sconosciuto, ma quel pomeriggio, in mezzo alla bufera, li mise tutti in fila, inserendosi per sempre nell’albo d’oro. Pat fece ritorno a casa. Adesso lo aspettava la sera. Consumò velocemente il suo pasto ed uscì. Fuori lo attendeva il suo mondo: le storie, gli amici, gli intrighi. “E’ notte finalmente, spero che l’alba non torni mai più”.
F I N E